Martino al Cimino, San |
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StoriaUna chiesa di San Martino in monte, in località detta casa putìda sul monte Fogliano, è citata per la prima volta nell’anno 838 quando fu donata da Benedetto, figlio di Auperto, all’abate di Farfa. Attorno ad essa si formò un primitivo cenobio benedettino che si trasferì ben presto in un’altra zona del monte dove sorse l’abbazia, nominata in un documento del 1045. Nel 1145 San Martino al Cimino fu affidata dal papa cistercense Eugenio III ai monaci bianchi di Saint Sulpice in Savoia, della linea di Pontigny, che occuparono l’abbazia nel 1150 con l’intento di risollevarne la situazione economica critica. Il tentativo non riuscì nonostante i privilegi e le esenzioni erogate da Alessandro III e Lucio nel 1207 Innocenzo III chiese al Capitolo Generale dell’Ordine che l’abbazia fosse affidata direttamente a Pontigny e ciò avvenne nello stesso anno con una colonia di monaci francesi guidata dall’abate Pietro. Grazie alle donazioni dello stesso Innocenzo II San Martino riprese vita e cominciarono i lavori di ricostruzione del complesso abbaziale, ai quali diede notevole impulso l’abate Giovanni II (1213-1228) ma che durarono fino alla fine del secolo. Nel 1217 il refettorio era da poco finito, nel 1225 fu consacrata la chiesa (anche se ancora in costruzione), nel 1244 esisteva parte del chiostro e si desume da un inventano dei beni mobili e immobili dell’abbazia redatto nel 1305 che il monastero a questa data fosse stato completato. L’inizio della decadenza fu segnato dal saccheggio di San Martino e dalla cacciata dei monaci ad opera di Silvestro Gatti, signore di Viterbo, tra il 1317 e il l323~. Nel 1329, alla morte del Gatti, alcuni monaci rientrarono nell’abbazia, ma nel 1379 l’antipapa Clemente VII vi istituì la Commenda. 11 monastero cadde in rovina tanto che nel 1445 Eugenio IV stabili che alla morte del commendatario vi subentrassero gli Olivetani. Probabilmente ciò non avvenne perché nel 1452 Niccolò V concesse San Martino ai monaci di Pontigny che vi restarono fino al 1461 quando abbandonarono il complesso, dato nuovamente in Commenda al cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, il futuro Pio III, che si curò di alcuni restauri. Nel 1564 Pio IV unì il monastero al Capitolo di San Pietro in Vaticano e fu posto un sacerdote per officiare nel borgo che si era formato attorno all’abbazia. Nel 1645 San Martino fu ceduto dai canonici di San Pietro a Donna Olimpia Maidalchini Pamphilij, cognata di Innocenzo X (che autorizzò la cessione), in cambio di denaro e di altri terreni nel Lazio. San Martino tornò ad avere il titolo abbaziale e cominciarono una serie di lavori di rinnovamento di tutto il borgo, tra i quali la costruzione del palazzo (che incorporò parte degli edifici monastici) e i restauri della chiesa (con l’edificazione delle due torri in facciata). Nel 1760 il feudo passò ai Dora Pamphilij Landi, per concessione di papa Clemente XII, e dal 1936 il titolo di abate di San Martino è attribuito al vescovo di Viterbo. ArchitetturaTralasciando l’aspetto urbanistico del borgo di San Martino al Cimino, concentriamo la nostra attenzione sulla chiesa abbaziale, sorta forse su una precedente costruzione romanica. La data d’inizio dell’attuale edificio è incerta, ma la maggior parte degli studiosi la pone all’inizio del XIII secolo. Furono realizzati dapprima il transetto nord e il coro, quindi nel secondo quarto e nella seconda metà del secolo rispettivamente le navate e la copertura e nel 1305, come già detto, la chiesa doveva essere terminata. Alcuni restauri, di cui non si conosce l’entità con precisione, furono compiuti sotto il governo del cardinale Piccoloniini (1461-1500) al quale è forse da attribuire l’apertura del finestrone centrale nella facciata. Nel 1601 e nel 1610 fu riparato il tetto mentre «in due documenti, databili all’incirca tra la fine del secolo XVI e l’inizio del XVII, si dà notizia dello stato fatiscente delle volte della navata e di alcuni contrafforti». Nella prima metà del ‘600 l’edificio, forse a causa della spinta delle volte bilanciata in modo insufficiente dai contrafforti, fu danneggiato e si dovette intervenire ricostruendo la parte centrale della chiesa (come risulterebbe dall’esame della muratura e dei capitelli); sugli autori e le date dei lavori non ci sono certezze anche se gli studiosi pensano che furono conclusi nel 1647, come dimostrerebbe una lapide commemorativa all’interno dell’edificio. Pochi anni dopo (1651-1654) furono realizzate le due grandi torri campanarie che dovevano fungere da contrafforti per impedire lo slittamento in avanti della facciata. Durante il XIX secolo furono realizzate alcune modifiche nella chiesa, cancellate dai restauri degli anni 1911-l915. Nel 1967 la Soprintendenza ai Monumenti di Roma e del Lazio ha provveduto al rifacimento del pavimento. L’edificio, costruito in peperino e occhio di pesce (pietre locali), è croce latina, a tre navate (delle quali quella centrale ha quattro campate quadrate e ad ognuna di queste corrispondono due campate rettangolari nelle laterali), con pilastri poliobati (quadrati con addossata una semicolonna per lato) che si alternano a colonne), transetto a tre campate con quattro cappelle di forma rettangolare che affiancano (due per braccio) l’abside che ha terminazione pentagonale ed è illuminata da sei finestre su due ordini. La copertura degli ambienti è affidata a volte a crociera cordonata (« quadripartita nelle navate, nelle cappelle del transetto e nell’incrocio; esapartita nei due bracci del transetto; a cinque spicchi nel coro e mezza esapartita nella precampata del coro»). Da notare nell’ultima campata della navata centrale, a destra, alcune tracce di un tentativo di volta esapartita, sistema che probabilmente nel progetto originario si voleva adottare per tutta la copertura, ma che fu presto abbandonato. Del piccolo campanile, forse in legno, che si trovava all’incrocio del transetto rimangono solo gli archi della base. La facciata della chiesa presenta le due grandi torre seicentesche, il finestrone gotico e il portale, anch’esso forse rimaneggiato nel XVII secolo. Riguardo agli edifici monastici, la gran parte di essi sono andati distrutti in seguito alla costruzione del palazzo Pamphlij nel ‘600 e sono sopravvissuti solo la sala capitolare (ad unica navata in tre campate coperte da volte a ogiva), il refettorio (due navate di quattro campate, con copertura a crociera e tre colonne centrali poliobate) e pochi resti del chiostro duecentesco. L’interesse per San Martino al Cimino nasce dalla sua originalità rispetto agli altri edifici cistercensi laziali. Ricordiamo l’abside poligonale (esempio unico nell’architettura dell’Ordine in Italia), l’uso della volta esapartita, la posizione del chiostro a nord della chiesa (che alcuni studiosi attribuiscono agli edifici monastici preesistenti, altri all’influenza esercitata dalla abbazia madre di Pontigny). Le prime due caratteristiche insieme ad alcuni tipi di decorazione sono per Fraccaro chiari esempi di forme borgognone, alle quali i costruttori di San Martino si vollero richiamare, non imitando le architetture cistercensi già esistenti nel Lazio. Questo aspetto di originalità è notato anche da D’Onofrio, Pietrangeli che, riprendendo l’Enlart, sottolineano l’importanza dei monaci di Pontigny, capaci di importare dalla Francia quei caratteri gotici presenti nella chiesa. BibliografiaMonasticon Italiae, I, Roma e Lazio, a cura di F. Caraffa, Cesena 1981, p. 195, sch. 299; BENTIVOGLIO E. – VALTIERI S., S. Martino al Cimino, Viterbo, 1973. DE PAOLIS-OBERTI, L’abbazia di S. Martìno al Cimino, in I Cistercensi e il Lazio …. cit., pp. 169-175. EGIDI P., L’abbazia di S. Martino al Cimino presso Viterbo (con documenti inediti ed illustri), in Rivista Storica Benedettina, I, 1906, fasc. IV, 579-90, II, 1907, fasc. VI, pp. 161-99, fasc. VIII, pp. 481-552. MARCONI P., L’abbazia di S. Martino al Cimino, in L’architettura, 1963, 9, pp. 262-273. VITI G., S. Martino al Cimino, in “D.I.P.”, VIII, 1988, coll. 591-593. Foto |
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