Stemma dell’Abbazia di Cîteaux   Stemma dell’Abbazia di Piona
Abbazia di Piona
23823 Colico (Lecco)

 

La storia



All’estreme falde di un costolone che scende robusto e gibboso, e fratto in alcuni punti, dalle vette del Legnone e del Legnoncino, sulla radura della selvosa collina tondeggiante di Olgiasca che, a forma di una grossa e sgraziata testuggine, mollemente digrada e decisamente si spinge nell’acqua, si erge, raccolta e raccordata sul chiostro quadrangolare, seppur con vistose appendici al nucleo primitivo, la struttura massiccia dell’abbazia di Piona, vegliata da un campanile che ha l’aspetto, di un faro di segnalazione.

Ubicata nella parte nord della sponda orientale, quasi al cominciare del lago di Como, di rimpetto alle cittadine graziose di Gravedona, di Dongo e di Domaso, poco distante, seppur leggermente decentrata e protetta, dalla confluenza della Valtellina e della Valchiavenna – da sempre vie di comunicazione e di commercio ed anche, purtroppo, di invasione e di aggressione – l’abbazia: costituisce un monito ed una speranza di pacifica convivenza e di cristiana collaborazione, emblematicamente rappresenta, tra le tante famose e civettuole ville che si specchiano nel lago, una presenza privilegiata, la solidificazione della preghiera, della fiducia, della speranza che si innalzano verso il cielo dalle mille contrade laboriose che si aggrappano sulle sponde.

In essa una piccola colonia di miti e pacifici monaci cistercensi, seguendo la ultramillenaria saggezza di san Benedetto, patriarca del monachesimo d’Occidente e patrono di Europa, raccoglie e sublima con la vita intessuta di preghiera, di lavo o e di raccoglimento, con umana e cristiana condivisione, la gioia, il dolore, l’ansia di tanti fratelli vicini e lontani, bisognosi di luce e di conforto; l’abbazia diventa, secondo il vangelo, la lucerna posta sul candelabro, la cittadella costruita sull’altura che non può essere tenuta nascosta.

 

Il cippo

AGRIPPINO SERVO DI CRISTO
VESCOVO DELLA CITTÀ DI COMO
ERESSE DALLE FONDAMENTA
QUESTO ORATORIO Di SANTA GIUSTINA
MARTIRE NEL X ANNO
DELLA SUA ORDINAZIONE
VI ORDINÒ IL SUO SEPOLCRO
LO COMPLETÒ IN OGNI SUA PARTE
E NE CELEBRÒ LA DEDICAZIONE
(Il cippo di Agrippino).

 

Il cippo di AgrippinoLa prima documentazione storica di questa terra, su cui hanno lasciato l’orma della loro presenza, o almeno del loro passaggio, i Liguri, i Celti, i Galli, gli Insubri, gli Etruschi, i Comensi, i Romani, è costituita da un cippo, su cui è stato scolpito, a memoria, che il vescovo Agrippino di Como (607-617), nel decimo anno del suo mandato, fece erigere un oratorio dedicato a santa Giustina martire, lo completò in ogni sua parte, ne fece sistemare le sepolture e ne celebrò la dedicazione. Il cippo, con l’esplicita menzione all’oratorio e alle sepolture, lascia trasparire chiaramente che in questo lembo di terra già allora si fosse costituita una comunità monastica, probabilmente di impostazione eremitica..

Una conferma in tal senso, comunque, ci viene fornita dalle notizie riportate dallo storico Tatti, il quale elencando i monasteri della diocesi, afferma, senza tuttavia citarne la fonte, che nell’824 il «primo scorgeasi a Piona e portava il nome di santa Giustina». Di questo antichissimo oratorio resta come testimonianza, seppur tra pareri discordi degli storici dell’arte, una piccola abside, poco discosta e leggermente rialzata rispetto al livello della chiesa attuale. Una svolta decisiva, che rappresentò un impulso rivitalizzante per la comunità monastica, si ebbe quando Piona, probabilmente alla fine del secolo XI, fu inserita nel movimento della riforma cluniacense. Per incuria degli uomini è andato perduto l’atto ufficiale dell’adesione; ma dal documenti autentici degli altri tre priorati cluniacensì nella zona – San Pietro di Vallate (1107), San Giovanni Battista di Vertemate (1084), San Nicola di Figine (1107) – possiamo verosimilmente concludere che anche la comunità monastica di Piona sia entrata in tal periodo nel movimento di riforma.

Dalla metà del XII secolo ci è pervenuta una documentazione lacunosa e frammentaria, sufficiente, però a lumeggiare la parabola prima ascendente e, poi, discendente della vitalità, anche economica, dell’abbazia fino all’introduzione della Commenda e, ancora, fino alla soppressione napoleonica. Di particolare importanza riteniamo un documento della metà del XIII secolo (1236-1244), pubblicato dal Marrier, in cui esplicitamente si fa menzione di una tassa di 13 lire imperiali, riscossa da Guglielmo da Lenora, visitatore della casa-madre Cluny. In un documento del 1277 è annotato che nel monastero vivevano otto monaci, che l’osservanza monastica era svolta regolarmente, che vi erano sufficienti viveri e che la cassa del monastero era in pareggio.

 

La Riforma cluniacense

Il documento più importante, tuttavia, della vitalità della comunità all’inizio di questo periodo di rinnovamento e di impulso nuovo è costituito dalla struttura stessa del monastero che espresse e solidificò in pietre, con slancio creativo, un ideale di vita monastica che tanta importanza e tanta incidenza ebbe, con tutte le implicazioni di ordine religioso, sociale, politico ed economico, alla fine del secolo XI. L’adesione, infatti, alla riforma cluniacense che prevedeva se non necessariamente la sostituzione dell’antica comunità, almeno l’invio di un folto numero di monaci dalla casa-madre, comportò anche, di conseguenza, un’impostazione già collaudata di vita e una concezione nuova dell’universo monastico con una disposizione delle strutture che, dallo studio di molti monasteri del tempo, risulta essere divenuta obbligante.

Il chiostro: “Paradisus claustralis…”

Il monastero benedettino, dopo il Mille, prevedeva, secondo il modello della villa romana, gli ambienti monastici, disposti in modo funzionale ed armonico, intorno al chiostro che, anche se realizzato in un secondo momento, diveniva non solo il punto di riferimento ideale della pianta come un perno attorno al quale ruotava tutta la struttura, ma, anche, la misura che scandiva spazi e proporzioni. Il chiostro rappresentava, così, per il monaco benedettino, il Paradisus claustralis, la porta coeli, il fons signatus con tutta una simbologia che serviva di ammonimento e di edificazione per la vita spirituale. Si può, dunque, legittimamente ipotizzare che i nuovi monaci di Piona siano intervenuti sul vecchio oratorio di santa Giustina in attesa della nuova chiesa che, secondo una prassi storicamente documentata, era la prima delle quattro ali del monastero ad essere realizzata. Il monastero era un organismo che armonicamente cresceva intorno alla chiostro secondo le esigenze della comunità monastica e secondo le possibilità economiche, senza, tuttavia, mai alterare le proporzioni delle parti.

Il monastero:
Dedicato alla Beata Vergine Maria e a San Nicola di Bari

È documentato che il monastero di Piona, dopo l’adesione al movimento della riforma cluniacense, fu dedicato alla beata Vergine Maria come pure, ad appena sedici anni di distanza, venne indicato come Ecclesia sancti Nicolai, avvenimenti questi diversamente spiegati dagli storici locali e variamente giustificati dagli studiosi dell’arte. Lo storico Giussani riporta, infatti, che nel settembre del 1906, mentre venivano realizzati i primi restauri della chiesa, venne alla luce un’iscrizione a fresco di m. 2.15x1.60 – di cui resta attualmente un riquadro a calce in cui si intravedono residue lettere pellegrine – con un’epigrafe già allora mutila da cui, tuttavia, si ricavava con sicurezza la data della consacrazione (1138) da parte del vescovo Ardizzone di Como (1125-159) e la dedica alla beata Vergine, un titolo molto caro all’ambiente monastico e già esclusivo per le abbazie cistercensi. Gli storici del monastero non sono stati in grado di stabilire, però, se proprio in occasione della dedicazione del 1138, o di un intervento successivo o e di un improbabile trasferimento della comunità di San Pietro di Vallate, la chiesa sia dedicata anche a san Nicola di Bari, quale co-patrono, culto largamente attestato in zona in quanto protettore dei naviganti.

Certamente in un documento autentico di vendita del 1154 viene affermato esplicitamente a mane sancti Nicolai de Piona. Il Marcora, nella sua pregiata pubblicazione sul priorato, propende per l’ipotesi che san Nicola sia stato scelto come co-patrono già nella dedicazione del 1138. Un’epigrafe mutila, infatti, riporta, con la dedica alla beata Vergine, nomi ben leggibili di altri santi e, in chiusura, all’ultimo rigo, ben visibile il nome di san Lorenzo martire.

Cluny: Abbazia madre

Piona, dunque, aderì al movimento di riforma cluniacense in una data non meglio precisabile, sicuramente, però, a cavallo tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del successivo e fu annoverata tra le molte case, più di cinquanta, della cosiddetta Provincia o Cameraria di Lombardia nel periodo in cui l’abbazia-madre, Cluny, si faceva carico della riforma di tutta la Chiesa e produceva il massimo sforzo per rompere lo scellerato servaggio rappresentato dall’investitura laica.

La Congregazione cluniacense si presentava in modo fortemente centralizzato tramite visite regolari, capitoli generali e provinciali e con responsabilità affidate ai vicari delle singole Province o camerarie.

L’abate di Cluny godeva di una forte autorità personale anche se non dichiaratamente definita: a lui, incombeva, tra l’altro, il dovere di ricorso alla Santa Sede e la punizione dei delitti più gravi, la conferma degli abati e dei priori, la possibilità di procedere all’assegnazione dei monaci tra le diverse case in modo da assicurare a ciascuna di esse la possibilità di un servizio divino decoroso.

Dalle carte di visita e dalle deliberazioni dei Capitoli generali abbiamo la possibilità di rilevare gli elementi costitutivi della vita e della spiritualità cluniacense: la pratica dell’obbedienza e della mutua carità, l’impegno nella celebrazione della vita liturgica, l’esercizio dell’ospitalità secondo le possibilità economiche delle singole case. Le relazioni di visita, seppur frammentarie, sono, per il priorato di Piona, fonti preziose di documentazione perché annotano, di volta in volta, il decoro della liturgia, lo stato economico e amministrativo, l’impegno nella disciplina monastica, il numero dei religiosi. Una particolare sottolineatura esse riservano al dovere dell’ospitalità e non tralasciano di stigmatizzare qualche fatto di eccezionale gravità.

Un lungo periodo di decadenza

Già nel corso del XIV secolo cominciarono ad affiorare i sintomi di una progressiva decadenza cui i superiori competenti cercavano di porre gli opportuni rimedi: il ridotto numero dei monaci, i priori abitualmente assenti al monastero, la mancanza di concordia nella comunità, i debiti che tendevano ad aggravarsi.

Dall’insieme dei documenti di cui disponiamo risulta che la comunità era costretta a ricorrere a prestiti e che, quindi, si veniva determinando una situazione economica che non permetteva la manutenzione adeguata dei fabbricati monastici, l’esercizio tradizionale dell’ospitalità e l’elargizione abituate delle elemosine al poveri fino a costringere, per ripianare i debiti, all’alienazione di beni ricevuti in donazione. Sono documentati anche gli interventi della casa-madre, Cluny, per far fronte ad una situazione che si andava deteriorando ed a cui non si riusciva a porre rimedi risolutivi: sussidi in denaro, invio di monaci per rinsanguare la comunità, richiami al decoro della liturgia e al dovere delle opere di misericordia.

Emblematica a questo riguardo è una deliberazione del Capitolo generale del 1397 che puntualmente ed autorevolmente dichiara: Prioratus S. Nicolai de Payona, Comensis diocesis, ubi debent esse cum Priore octo monachi et debent celebrare cotidie Missam cum nota elemosina ibidem petentibus erogatur.

All’inizio del XV secolo la situazione tendeva a peggiorare. Tra gli ultimi sussulti di vita l’organismo si avviava fatalmente alla chiusura.

Da un documento del 1432, rinvenuto dal Giussani nell’archivio Comunale di Como, abbiamo la conferma di quanto era stato già scritto dal Tatti e, poi, dal Rovelli. Alla morte del priore Imblavado de’ Caimi, che era rimasto l’unico monaco in Piona, il duca di Milano Filippo Visconti, convinto di essere il legittimo amministratore dei beni ecclesiastici nell’eventualità in cui i monaci fossero venuti a mancare o avessero abbandonato per una qualsiasi causa, deputò, con atto del 20 febbraio del 1432, quale economo-amministratore dei beni del priorato, un certo Stefano Castello.

La commenda

Certamente vi fu una reazione a questa intrusione secolare. Documenti posteriori, infatti, attestano altri due priori, uno nella persona di Antonio Cardano di Morbegno, l’altro nella persona di Pietro Birago. Quest’ultimo, di nobile famiglia milanese, deve essere considerato, però, come l’anello di congiunzione del priorato regolare all’amministrazione secolare commendataria. È significativo, infatti, che proprio della famiglia Birago sia stato il primo abate commendatario, Daniele Birago.

Anticamente il termine commenda indicò l’affidamento dell’amministrazione provvisoria di una chiesa o di un monastero vacante ad un prelato, generalmente privo di un ministero e di risorse, designato dalla Sede Apostolica.

Dalla seconda metà del XIV secolo la commenda fu un atto istituzionale e riguardò solo i benefici regolari, raramente le chiese parrocchiali e favorì, in genere, i secolari contro la norma regularia regularibus. Essa procurava una rendita vitalizia ad un titolare lontano, senza un’autorità vera e propria, il quale si limitava a riscuotere le rendite monastiche senza preoccuparsi del governo dell’abbazia, della manutenzione dei fabbricati, del mantenimento dei monaci. La commenda ridusse in breve tempo i monasteri della penisola italiana, anche le grandi plurisecolari abbazie, ad uno stato di estrema miseria e di desolato abbandono.

Caustico il giudizio di Rosmini sulla commenda: «Fra le più deplorevoli illusioni di parole o, per dir meglio, vere menzogne, debbonsi enumerare le commende. Questa amministrazione dei beni ecclesiastici, financo dei monasteri e dei vescovadi, concedevasi anche a persone laicali che, così, ne godevano a man salva i frutti. Come chi dicesse, dandosi una pecora al lupo, che così si fa per raccomandarla alla sua diligenza. Tutta la giurisdizione fu pervertita da somiglianti nequitosissime menzogne».

Nel priorato di Piona la commenda si protrasse per la durata di oltre tre secoli, attraverso una serie di ben diciannove abati commendatari, che ebbe inizio, almeno dal 1488, con Daniele Birago, nominato successivamente arcivescovo titolare di Mitilene, ed ebbe termine con monsignor Giuseppe Bertieri, vescovo prima di Como e, poi, di Pavia. Il guasto provocato nel monastero dall’amministrazione commendataria balza con evidenza dagli atti delle visite pastorali effettuate dopo il concilio di Trento. L’antico priorato cluniacense viene descritto in uno stato di estrema povertà e di assoluto abbandono per quanto riguarda le suppellettili e la vita liturgica e di fatiscente degrado per quanto riguarda la struttura muraria. Gli atti della seconda visita pastorale, quella del vescovo di Como Feliciano Ninguarda, del 7 novembre 1593, per quanto riguarda i fabbricati, letteralmente recitano:«il monastero e le case di esso sono tutte rovinate, guasti i tetti per i quali, piovendo, sono guasti i muri et i legni, se bene vi sono luoghi per sei stanze di sopra e tre di basso et il chiostro da basso di colonne di marmo intorno a forma di monastero et del resto tutto in ruina, si come sono pieni la corte et giardino di sterco, spino, et niuno vi provvede. Intorno la chiesa vi è un cimiterio tutto sporco e mal’in essere et vi entrano bestie e nel cimiterio vi sono due porte una per la quale si entra nella porta del monastero e, l’altra in certi giardini e nella vigna. Il campanile non ha l’uscio et dentro è tutto guasto e stanno per cascare le campane et le porte senza serrature».

La legge del 19 fiorile anno VI (8 maggio 1798) della Repubblica Cisalpina autorizzava a traslocare, a concentrare e a sopprimere le corporazioni religiose e ad avocarne i beni alla nazione.

Il Direttorio, con decreto del 14 pratile (2 giugno), incamerava tutte le abbazie sia di patronato regio sia della cessata Corte di Roma.

Soppressa la commenda ed incamerati i beni ecclesiastici, con atto notarile rogato nell’11 aprile 1801 “nell’Ufficio del Ministero di Finanza Generale sito nel palazzo Marini”, al cittadino grigionese Salis Tagstein furono assegnati i fondi dell’ex priorato di Piona valutati “di pertiche 522.12 con l’estimo di scudi 734.3.1 tutto compreso, stimati del valore di £. 11.142.18.4 dalle quali dedotto il valore della Chiesa ed abitazione del Vicario (che dicesi in cura di anime) calcolate a £. 1023 restano diecimila cento diecinove soldi 18.4 diconsi £. 10.119.18.4 Ragione della Pesca del Lago di Piona di pertiche 1937.18 non censito, stimate lire quindicimila, diconsi 15.000. £. 25119.18.4”.

Dal Salis Tagstein la proprietà passò alla famiglia Sacchi di Gravedona, poi ai Genazzini di Bellagio, quindi ai Pezoni ed ancora ai Casati di Gravedona e, nel 1904, alla signora Angela Rizzi in Secondi.

Ma furono gli studiosi ed i critici d’arte a salvare, in qualche modo, il complesso monastico. Il risveglio d’interessamento per il patrimonio culturale, che caratterizzò il decorso dell’800, indirizzò l’attenzione verso l’ormai fatiscente monastero, interessò l’opinione pubblica, sensibilizzò le autorità responsabili. Per l’ex-priorato cluniacense vi fu, alla fine del secolo XIX, un primo intervento di restauro che risultò, purtroppo, assolutamente inadeguato; ma un secondo intervento, promosso, nella prima decade del ’900, dall’ingegnere Antonio Giussani, segretario del Consiglio Direttivo della Società Storica Comense, ottenne l’appoggio degli organi statali competenti e l’adesione di privati cittadini e risultò, almeno per la chiesa, appropriato, tanto che l’ingegnere, nel 1908, scrisse soddisfatto: «La voce che oggi s’è desta in ogni canto d’Italia e che nelle città e nei villaggi sprona ogni più sana energia alla tutela del patrimonio artistico della nazione è risuonata pure lassù e così forte quale prima d’ora fra noi mai era avvenuto».

Questo vivo interessamento diede copiosi frutti materiali i quali permisero di porre tosto mano ai lavori e di condurli quasi a compimento.

Il vetusto monumento, però, restava muto, freddo e senza vita come un reperto archeologico dentro un’asettica sala di museo; esso reclamava la funzione per cui era stato eretto, la presenza viva e vivificante di una comunità monastica orante. Sembrava un desiderio impossibile da realizzare a causa sia della difficile disponibilità di cessione da parte dei legittimi proprietari sia della difficoltà a reperire una comunità benedettina che si accollasse l’onere di una filiazione. Ma la storia, alla lunga, anche dopo circostanze tragiche, riannoda i fili spezzati, avvicina realtà e finalità che sembrano distanti, pacifica e rimargina lacerazioni che sembrano insanabili.

Da una terribile sciagura, perpetrata nella lontana terra d’Africa, come un fiore tra le spine, germinò e crebbe, in coscienze cristiane provate ma purificate nella memoria, un progetto di perdono e di pacificazione che investì e coinvolse anche il monastero di Piona.

Il 12 novembre 1935 il dottore Emilio Secondi di Torino vendeva la proprietà del monastero al commendatore Pietro Rocca, esponente di una famiglia imprenditoriale che, di lì a poco, fu segnata da una irreparabile disgrazia.

Cesare, fratello del commendatore, dopo un periodo di attività presso la Società di Val Formazza, era partito per lavorare in Africa alle dipendenze della Società Gondrand ed aveva ottenuto l’affidamento della costruzione di un tronco stradale nella zona di Fil‑Fil. Il cantiere fu trasferito, in seguito, a Mai-Lalà, qualche chilometro al di là dell’antico confine eritreo, oltre il Mareb, a poche centinaia di metri dalla prima linea dov’era, allora, attestato il fronte italiano durante la campagna etiopica. Nella notte tra il 12 e il 13 febbraio due colonne dell’esercito etiopico diedero l’assalto e seminarono la strage nel cantiere Rocca: Cesare e la moglie Lidia Maffioli vennero travolti nella sciagura.

Dopo la tragedia nel cuore del commendatore Pietro e in quello della madre, Annetta Pogliani, incominciò a germinare il desiderio di un progetto nobile per ricordare il sacrificio di Lidia e di Cesare «un’opera di bontà cristiana che perpetuasse l’olocausto delle loro giovani vite e quelle di tutti i loro compagni di lavoro, generosamente sacrificatisi per la grandezza della patria».

Il progetto si concretizzò tramite la mediazione del professore Luigi Pirelli, oriundo di Varenna, reduce dall’Asmara. Questi, durante una visita nell’abbazia di Casamari, raccolse la voce che la comunità monastica da qualche anno si preparava, per incarico della santa Sede, all’impiantazione del monachesimo cattolico in Etiopia. Egli prospettò, dunque, al commendatore Rocca la possibilità di legare le due realtà e di affidare, in segno di perdono e di purificazione della memoria, il monastero di Piona alla Congregazione di Casamari che si sarebbe impegnata all’insediamento di una comunità di monaci nell’antico priorato cluniacense. Dalle lettere d’intesa intercorse tra il professore Pirelli, il commendatore Rocca, l’abate di Casamari e il vescovo di Como emerge con evidenza il proposito che la presenza dei monaci cistercensi in Piona dovesse servire non solo a perpetuare la memoria dei coniugi Rocca, ma dovesse costituire anche, e soprattutto, un gesto tangibile di riconciliazione, di pacificazione della memoria, di superamento di ogni inimicizia, di augurio di un mondo migliore fondato sulla collaborazione. Il 20 settembre, l’abate di Casamari, p. Angelo Savastano, scriveva, tra l’altro, al vescovo Alessandro Macchi di Como: «Il ripristino del vetusto cenobio, col perpetuare la memoria dei coniugi Rocca, barbaramente trucidati in Africa Orientale nell’eccidio del cantiere Gondrand, avrebbe lo scopo precipuo di dare maggior incremento alla nostra istituzione Collegio Etiopico per il monachesimo indigeno che già da sette anni fiorisce qui in Casamari».

Il 25 settembre 1937 il commendatore Pietro Rocca, assistito dalla madre faceva “ampia ed irrevocabile donazione” di tutta la tenuta di Piona alla Congregazione cistercense di Casamari al fine di “eternare la memoria dei loro congiunti, Cesare e Lidia, e perché detti Padri cistercensi, vi istituiscano una loro casa religiosa, rimettendo, così, in onore la celebre abbazia”. Il 13 febbraio 1938, a due anni esatti dal massacro di Mai‑Lalà, un drappello di monaci bianchi, provenienti da Casamari, accompagnati dal p. abate don Angelo Savastano, accolti dal vescovo diocesano mons. Alessandro Macchi, dalla famiglia Rocca, da una folta rappresentanza del clero dell’alto Lario, prese canonicamente possesso del priorato, tra due ali di folla festante. Alla fine del solenne pontificato, dopo i discorsi ufficiali, fu scoperta, ad perpetuam rei memoriam, una lapide commemorativa sopra la porta d’ingresso al chiostro. Il commendatore Rocca, nel suo diario, finemente annotava: «Così, insieme ad una delle migliori valorizzazioni di quell’arte che fu coltivata con tanto gusto e finezza dal maestri comacini, il visitatore sentirà la bellezza e la santità di un sacrificio, e la preghiera gli salirà spontanea sulle labbra: le preghiere non hanno bisogno di monumenti, ma li fanno sorgere. Non si è voluto solo riaprire al culto una chiesa e rioffrire ai turisti un’altra squisita testimonianza di un’arte lombarda, ma si è voluto dare a Piona una vita feconda di bene, affidando l’abbazia ai Padri cistercensi di Casamari».

Dopo quattro secoli di silenzio e di abbandono, il monastero ha sentito di nuovo pulsare la vita ed ha vissuto un’altra intensa stagione lavorativa in opere di risistemazione, di adattamento, di sbancamento, frutto di perizia, di sensibilità, di amore, secondo lo spirito del primitivo movimento cistercense – amatores Regulae, fratrum et loci – e secondo le caratteristiche dell’architettura cistercense, fondata sul criterio della gravitas, per cui tutta la struttura ed ogni elemento di essa sembra traspirare geometria ed armonia ed ogni cosa risponde ad un’esigenza di ordine e di decoro che conviene alla casa di Dio. I monaci hanno fatto di Piona la perla del Lago di Como con interventi tesi ad esaltare senza contraffare, ad abbellire senza tradire la struttura originaria. Prima di morire il commendatore Pietro Rocca ha voluto compiere un altro atto di genuino affetto, vendendo ai monaci la Malpensata, una villa cinquecentesca, immersa nel verde e nel silenzio, che si affaccia sul lago con quattro loggiati sovrapposti di cinque arcate l’uno, sorrette al lati da due robusti avancorpi, fortemente ancorata, nella parte posteriore, al declivo della collina. La villa, costruita sui ruderi del massericio, anticamente epicentro della vita economica e sociale del monastero e delle poche famiglie di Olgiasca, è stata restituita alla originaria funzione di luogo di carità.

Dal 1983, infatti, la comunità monastica – eretta già dal 1970 a priorato conventuale con larga autonomia amministrativa – ha concesso la villa al Padri Somaschi e in seguito, alla associazione “Il Gabbiano” che ne ha fatto un centro per il recupero di giovani tossico-dipendenti. La comunità monastica ha curato anche la ristrutturazione di un fabbricato a fianco della chiesa e lo ha adibito per foresteria di gruppi autogestiti con la denominazione fortemente evocativa, di Oasi San Benedetto. Tanti turisti restano, infatti, spesso sorpresi dalla presenza e dalla vitalità di alcune comunità monastiche; si recano a visitare e ad analizzare il monumento e si vedono investiti dal calore composto e solenne di una liturgia che emana dalla profondità dei secoli, avvertono il respiro lungo della storia che si incarna in un umanesimo vissuto. Manifestano anche il desiderio di condivisione della spiritualità benedettina, organizzata sul ritmo dei tre momenti intercomunicanti dell’ora, del labora e della lectio in monasteri che, dopo la spogliazione dei paludamenti feudali, sono tornati alla primitiva ed incisiva funzione di testimonianza dell’amore del Cristo crocifisso e risorto, di luoghi dello spirito in cui “nell’esercizio delle virtù e nella fede, il cuore si dilata e la via dei divini precetti viene percorsa nell’inesprimibile dolcezza dell’amore” (San Benedetto, Regola).