La storia
All’estreme falde di un costolone che scende robusto e
gibboso, e fratto in alcuni punti, dalle vette del Legnone e del Legnoncino,
sulla radura della selvosa collina tondeggiante di Olgiasca che, a forma di
una grossa e sgraziata testuggine, mollemente digrada e decisamente si
spinge nell’acqua, si erge, raccolta e raccordata sul chiostro
quadrangolare, seppur con vistose appendici al nucleo primitivo, la
struttura massiccia dell’abbazia di Piona, vegliata da un campanile che ha
l’aspetto, di un faro di segnalazione.
Ubicata nella parte nord della sponda orientale, quasi
al cominciare del lago di Como, di rimpetto alle cittadine graziose di
Gravedona, di Dongo e di Domaso, poco distante, seppur leggermente
decentrata e protetta, dalla confluenza della Valtellina e della
Valchiavenna – da sempre vie di comunicazione e di commercio ed anche,
purtroppo, di invasione e di aggressione – l’abbazia: costituisce un monito
ed una speranza di pacifica convivenza e di cristiana collaborazione,
emblematicamente rappresenta, tra le tante famose e civettuole ville che si
specchiano nel lago, una presenza privilegiata, la solidificazione della
preghiera, della fiducia, della speranza che si innalzano verso il cielo
dalle mille contrade laboriose che si aggrappano sulle sponde.
In essa una piccola colonia di miti e pacifici monaci
cistercensi, seguendo la ultramillenaria saggezza di san Benedetto,
patriarca del monachesimo d’Occidente e patrono di Europa, raccoglie e
sublima con la vita intessuta di preghiera, di lavo o e di raccoglimento,
con umana e cristiana condivisione, la gioia, il dolore, l’ansia di tanti
fratelli vicini e lontani, bisognosi di luce e di conforto; l’abbazia
diventa, secondo il vangelo, la lucerna posta sul candelabro, la cittadella
costruita sull’altura che non può essere tenuta nascosta.
Il cippo
AGRIPPINO SERVO DI CRISTO
VESCOVO DELLA CITTÀ DI COMO
ERESSE DALLE FONDAMENTA
QUESTO ORATORIO Di SANTA GIUSTINA
MARTIRE NEL X ANNO
DELLA SUA ORDINAZIONE
VI ORDINÒ IL SUO SEPOLCRO
LO COMPLETÒ IN OGNI SUA PARTE
E NE CELEBRÒ LA DEDICAZIONE
(Il cippo di Agrippino).
La prima documentazione storica di questa terra, su cui hanno lasciato l’orma
della loro presenza, o almeno del loro passaggio, i Liguri, i Celti, i
Galli, gli Insubri, gli Etruschi, i Comensi, i Romani, è costituita da un
cippo, su cui è stato scolpito, a memoria, che il vescovo Agrippino di Como
(607-617), nel decimo anno del suo mandato, fece erigere un oratorio
dedicato a santa Giustina martire, lo completò in ogni sua parte, ne fece
sistemare le sepolture e ne celebrò la dedicazione. Il cippo, con
l’esplicita menzione all’oratorio e alle sepolture, lascia trasparire
chiaramente che in questo lembo di terra già allora si fosse costituita una
comunità monastica, probabilmente di impostazione eremitica..
Una conferma in tal senso, comunque, ci viene fornita
dalle notizie riportate dallo storico Tatti, il quale elencando i monasteri
della diocesi, afferma, senza tuttavia citarne la fonte, che nell’824 il
«primo scorgeasi a Piona e portava il nome di santa Giustina». Di questo
antichissimo oratorio resta come testimonianza, seppur tra pareri discordi
degli storici dell’arte, una piccola abside, poco discosta e leggermente
rialzata rispetto al livello della chiesa attuale. Una svolta decisiva, che
rappresentò un impulso rivitalizzante per la comunità monastica, si ebbe
quando Piona, probabilmente alla fine del secolo XI, fu inserita nel
movimento della riforma cluniacense. Per incuria degli uomini è andato
perduto l’atto ufficiale dell’adesione; ma dal documenti autentici degli
altri tre priorati cluniacensì nella zona – San Pietro di Vallate (1107),
San Giovanni Battista di Vertemate (1084), San Nicola di Figine (1107) –
possiamo verosimilmente concludere che anche la comunità monastica di Piona
sia entrata in tal periodo nel movimento di riforma.
Dalla metà del XII secolo ci è pervenuta una
documentazione lacunosa e frammentaria, sufficiente, però a lumeggiare la
parabola prima ascendente e, poi, discendente della vitalità, anche
economica, dell’abbazia fino all’introduzione della Commenda e, ancora,
fino alla soppressione napoleonica. Di particolare importanza riteniamo un
documento della metà del XIII secolo (1236-1244), pubblicato dal Marrier,
in cui esplicitamente si fa menzione di una tassa di 13 lire imperiali,
riscossa da Guglielmo da Lenora, visitatore della casa-madre Cluny. In un
documento del 1277 è annotato che nel monastero vivevano otto monaci, che
l’osservanza monastica era svolta regolarmente, che vi erano sufficienti
viveri e che la cassa del monastero era in pareggio.
La Riforma cluniacense
Il documento più importante, tuttavia, della vitalità
della comunità all’inizio di questo periodo di rinnovamento e di impulso
nuovo è costituito dalla struttura stessa del monastero che espresse e
solidificò in pietre, con slancio creativo, un ideale di vita monastica che
tanta importanza e tanta incidenza ebbe, con tutte le implicazioni di
ordine religioso, sociale, politico ed economico, alla fine del secolo XI.
L’adesione, infatti, alla riforma cluniacense che prevedeva se non
necessariamente la sostituzione dell’antica comunità, almeno l’invio di un
folto numero di monaci dalla casa-madre, comportò anche, di conseguenza,
un’impostazione già collaudata di vita e una concezione nuova dell’universo
monastico con una disposizione delle strutture che, dallo studio di molti
monasteri del tempo, risulta essere divenuta obbligante.
Il chiostro: “Paradisus claustralis…”
Il monastero benedettino, dopo il Mille, prevedeva,
secondo il modello della villa romana, gli ambienti monastici, disposti in
modo funzionale ed armonico, intorno al chiostro che, anche se realizzato
in un secondo momento, diveniva non solo il punto di riferimento ideale
della pianta come un perno attorno al quale ruotava tutta la struttura, ma,
anche, la misura che scandiva spazi e proporzioni.
Il
chiostro rappresentava, così, per il monaco benedettino, il Paradisus
claustralis, la porta coeli, il fons signatus con tutta
una simbologia che serviva di ammonimento e di edificazione per la vita
spirituale. Si può, dunque, legittimamente ipotizzare che i nuovi monaci di
Piona siano intervenuti sul vecchio oratorio di santa Giustina in attesa
della nuova chiesa che, secondo una prassi storicamente documentata, era la
prima delle quattro ali del monastero ad essere realizzata. Il monastero
era un organismo che armonicamente cresceva intorno alla chiostro secondo
le esigenze della comunità monastica e secondo le possibilità economiche,
senza, tuttavia, mai alterare le proporzioni delle parti.
Il monastero:
Dedicato alla Beata Vergine Maria e a San Nicola di Bari
È documentato che il monastero di Piona, dopo l’adesione
al movimento della riforma cluniacense, fu dedicato alla beata Vergine
Maria come pure, ad appena sedici anni di distanza, venne indicato come
Ecclesia sancti Nicolai, avvenimenti questi diversamente spiegati dagli
storici locali e variamente giustificati dagli studiosi dell’arte. Lo
storico Giussani riporta, infatti, che nel settembre del 1906, mentre
venivano realizzati i primi restauri della chiesa, venne alla luce
un’iscrizione a fresco di m. 2.15x1.60 – di cui resta attualmente un
riquadro a calce in cui si intravedono residue lettere pellegrine – con
un’epigrafe già allora mutila da cui, tuttavia, si ricavava con sicurezza
la data della consacrazione (1138) da parte del vescovo Ardizzone di Como
(1125-159) e la dedica alla beata Vergine, un titolo molto caro
all’ambiente monastico e già esclusivo per le abbazie cistercensi. Gli
storici del monastero non sono stati in grado di stabilire, però, se
proprio in occasione della dedicazione del 1138, o di un intervento
successivo o e di un improbabile trasferimento della comunità di San Pietro
di Vallate, la chiesa sia dedicata anche a san Nicola di Bari, quale
co-patrono, culto largamente attestato in zona in quanto protettore dei
naviganti.
Certamente in un documento autentico di vendita del 1154
viene affermato esplicitamente a mane sancti Nicolai de Piona. Il
Marcora, nella sua pregiata pubblicazione sul priorato, propende per
l’ipotesi che san Nicola sia stato scelto come co-patrono già nella
dedicazione del 1138. Un’epigrafe mutila, infatti, riporta, con la dedica
alla beata Vergine, nomi ben leggibili di altri santi e, in chiusura,
all’ultimo rigo, ben visibile il nome di san Lorenzo martire.
Cluny: Abbazia madre
Piona, dunque, aderì al movimento di riforma cluniacense
in una data non meglio precisabile, sicuramente, però, a cavallo tra la
fine dell’XI secolo e l’inizio del successivo e fu annoverata tra le molte
case, più di cinquanta, della cosiddetta Provincia o Cameraria di Lombardia
nel periodo in cui l’abbazia-madre, Cluny, si faceva carico della riforma
di tutta la Chiesa e produceva il massimo sforzo per rompere lo scellerato
servaggio rappresentato dall’investitura laica.
La Congregazione cluniacense si presentava in modo
fortemente centralizzato tramite visite regolari, capitoli generali e
provinciali e con responsabilità affidate ai vicari delle singole Province
o camerarie.
L’abate di Cluny godeva di una forte autorità personale
anche se non dichiaratamente definita: a lui, incombeva, tra l’altro, il
dovere di ricorso alla Santa Sede e la punizione dei delitti più gravi, la
conferma degli abati e dei priori, la possibilità di procedere
all’assegnazione dei monaci tra le diverse case in modo da assicurare a
ciascuna di esse la possibilità di un servizio divino decoroso.
Dalle carte di visita e dalle deliberazioni dei Capitoli
generali abbiamo la possibilità di rilevare gli elementi costitutivi della
vita e della spiritualità cluniacense: la pratica dell’obbedienza e della
mutua carità, l’impegno nella celebrazione della vita liturgica,
l’esercizio dell’ospitalità secondo le possibilità economiche delle singole
case. Le relazioni di visita, seppur frammentarie, sono, per il priorato di
Piona, fonti preziose di documentazione perché annotano, di volta in volta,
il decoro della liturgia, lo stato economico e amministrativo, l’impegno
nella disciplina monastica, il numero dei religiosi. Una particolare
sottolineatura esse riservano al dovere dell’ospitalità e non tralasciano
di stigmatizzare qualche fatto di eccezionale gravità.
Un lungo periodo
di decadenza
Già nel corso del XIV secolo cominciarono ad affiorare i
sintomi di una progressiva decadenza cui i superiori competenti cercavano
di porre gli opportuni rimedi: il ridotto numero dei monaci, i priori
abitualmente assenti al monastero, la mancanza di concordia nella comunità,
i debiti che tendevano ad aggravarsi.
Dall’insieme dei documenti di cui disponiamo risulta che
la comunità era costretta a ricorrere a prestiti e che, quindi, si veniva
determinando una situazione economica che non permetteva la manutenzione
adeguata dei fabbricati monastici, l’esercizio tradizionale dell’ospitalità
e l’elargizione abituate delle elemosine al poveri fino a costringere, per
ripianare i debiti, all’alienazione di beni ricevuti in donazione. Sono
documentati anche gli interventi della casa-madre, Cluny, per far fronte ad
una situazione che si andava deteriorando ed a cui non si riusciva a porre
rimedi risolutivi: sussidi in denaro, invio di monaci per rinsanguare la
comunità, richiami al decoro della liturgia e al dovere delle opere di
misericordia.
Emblematica a questo riguardo è una deliberazione del
Capitolo generale del 1397 che puntualmente ed autorevolmente dichiara:
Prioratus S. Nicolai de Payona, Comensis diocesis, ubi debent esse cum
Priore octo monachi et debent celebrare cotidie Missam cum nota elemosina
ibidem petentibus erogatur.
All’inizio del XV secolo la situazione tendeva a
peggiorare. Tra gli ultimi sussulti di vita l’organismo si avviava
fatalmente alla chiusura.
Da un documento del 1432, rinvenuto dal Giussani
nell’archivio Comunale di Como, abbiamo la conferma di quanto era stato già
scritto dal Tatti e, poi, dal Rovelli. Alla morte del priore Imblavado de’
Caimi, che era rimasto l’unico monaco in Piona, il duca di Milano Filippo
Visconti, convinto di essere il legittimo amministratore dei beni
ecclesiastici nell’eventualità in cui i monaci fossero venuti a mancare o
avessero abbandonato per una qualsiasi causa, deputò, con atto del 20
febbraio del 1432, quale economo-amministratore dei beni del priorato, un
certo Stefano Castello.
La commenda
Certamente vi fu una reazione a questa intrusione
secolare. Documenti posteriori, infatti, attestano altri due priori, uno
nella persona di Antonio Cardano di Morbegno, l’altro nella persona di
Pietro Birago. Quest’ultimo, di nobile famiglia milanese, deve essere
considerato, però, come l’anello di congiunzione del priorato regolare
all’amministrazione secolare commendataria. È significativo, infatti, che
proprio della famiglia Birago sia stato il primo abate commendatario,
Daniele Birago.
Anticamente il termine commenda indicò
l’affidamento dell’amministrazione provvisoria di una chiesa o di un
monastero vacante ad un prelato, generalmente privo di un ministero e di
risorse, designato dalla Sede Apostolica.
Dalla seconda metà del XIV secolo la commenda fu un atto
istituzionale e riguardò solo i benefici regolari, raramente le chiese
parrocchiali e favorì, in genere, i secolari contro la norma regularia
regularibus. Essa procurava una rendita vitalizia ad un titolare
lontano, senza un’autorità vera e propria, il quale si limitava a
riscuotere le rendite monastiche senza preoccuparsi del governo
dell’abbazia, della manutenzione dei fabbricati, del mantenimento dei
monaci. La commenda ridusse in breve tempo i monasteri della penisola
italiana, anche le grandi plurisecolari abbazie, ad uno stato di estrema
miseria e di desolato abbandono.
Caustico il giudizio di Rosmini sulla commenda: «Fra le
più deplorevoli illusioni di parole o, per dir meglio, vere menzogne,
debbonsi enumerare le commende. Questa amministrazione dei beni
ecclesiastici, financo dei monasteri e dei vescovadi, concedevasi anche a
persone laicali che, così, ne godevano a man salva i frutti. Come chi
dicesse, dandosi una pecora al lupo, che così si fa per raccomandarla alla
sua diligenza. Tutta la giurisdizione fu pervertita da somiglianti
nequitosissime menzogne».
Nel priorato di Piona la commenda si protrasse per la
durata di oltre tre secoli, attraverso una serie di ben diciannove abati
commendatari, che ebbe inizio, almeno dal 1488, con Daniele Birago,
nominato successivamente arcivescovo titolare di Mitilene, ed ebbe termine
con monsignor Giuseppe Bertieri, vescovo prima di Como e, poi, di Pavia. Il
guasto provocato nel monastero dall’amministrazione commendataria balza con
evidenza dagli atti delle visite pastorali effettuate dopo il concilio di
Trento. L’antico priorato cluniacense viene descritto in uno stato di
estrema povertà e di assoluto abbandono per quanto riguarda le
suppellettili e la vita liturgica e di fatiscente degrado per quanto
riguarda la struttura muraria. Gli atti della seconda visita pastorale,
quella del vescovo di Como Feliciano Ninguarda, del 7 novembre 1593, per
quanto riguarda i fabbricati, letteralmente recitano:«il monastero e le
case di esso sono tutte rovinate, guasti i tetti per i quali, piovendo,
sono guasti i muri et i legni, se bene vi sono luoghi per sei stanze di
sopra e tre di basso et il chiostro da basso di colonne di marmo intorno a
forma di monastero et del resto tutto in ruina, si come sono pieni la corte
et giardino di sterco, spino, et niuno vi provvede. Intorno la chiesa vi è
un cimiterio tutto sporco e mal’in essere et vi entrano bestie e nel
cimiterio vi sono due porte una per la quale si entra nella porta del
monastero e, l’altra in certi giardini e nella vigna. Il campanile non ha
l’uscio et dentro è tutto guasto e stanno per cascare le campane et le
porte senza serrature».
La legge del 19 fiorile anno VI (8 maggio 1798) della
Repubblica Cisalpina autorizzava a traslocare, a concentrare e a sopprimere
le corporazioni religiose e ad avocarne i beni alla nazione.
Il Direttorio, con decreto del 14 pratile (2 giugno),
incamerava tutte le abbazie sia di patronato regio sia della cessata Corte
di Roma.
Soppressa la commenda ed incamerati i beni
ecclesiastici, con atto notarile rogato nell’11 aprile 1801 “nell’Ufficio
del Ministero di Finanza Generale sito nel palazzo Marini”, al cittadino
grigionese Salis Tagstein furono assegnati i fondi dell’ex priorato di
Piona valutati “di pertiche 522.12 con l’estimo di scudi 734.3.1 tutto
compreso, stimati del valore di £. 11.142.18.4 dalle quali dedotto il
valore della Chiesa ed abitazione del Vicario (che dicesi in cura di anime)
calcolate a £. 1023 restano diecimila cento diecinove soldi 18.4 diconsi £.
10.119.18.4 Ragione della Pesca del Lago di Piona di pertiche 1937.18 non
censito, stimate lire quindicimila, diconsi 15.000. £. 25119.18.4”.
Dal Salis Tagstein la proprietà passò alla famiglia
Sacchi di Gravedona, poi ai Genazzini di Bellagio, quindi ai Pezoni ed
ancora ai Casati di Gravedona e, nel 1904, alla signora Angela Rizzi in
Secondi.
Ma furono gli studiosi ed i critici d’arte a salvare, in
qualche modo, il complesso monastico. Il risveglio d’interessamento per il
patrimonio culturale, che caratterizzò il decorso dell’800, indirizzò
l’attenzione verso l’ormai fatiscente monastero, interessò l’opinione
pubblica, sensibilizzò le autorità responsabili. Per l’ex-priorato
cluniacense vi fu, alla fine del secolo XIX, un primo intervento di
restauro che risultò, purtroppo, assolutamente inadeguato; ma un secondo
intervento, promosso, nella prima decade del ’900, dall’ingegnere Antonio
Giussani, segretario del Consiglio Direttivo della Società Storica Comense,
ottenne l’appoggio degli organi statali competenti e l’adesione di privati
cittadini e risultò, almeno per la chiesa, appropriato, tanto che
l’ingegnere, nel 1908, scrisse soddisfatto: «La voce che oggi s’è desta in
ogni canto d’Italia e che nelle città e nei villaggi sprona ogni più sana
energia alla tutela del patrimonio artistico della nazione è risuonata pure
lassù e così forte quale prima d’ora fra noi mai era avvenuto».
Questo vivo interessamento diede copiosi frutti
materiali i quali permisero di porre tosto mano ai lavori e di condurli
quasi a compimento.
Il vetusto monumento, però, restava muto, freddo e senza
vita come un reperto archeologico dentro un’asettica sala di museo; esso
reclamava la funzione per cui era stato eretto, la presenza viva e
vivificante di una comunità monastica orante. Sembrava un desiderio
impossibile da realizzare a causa sia della difficile disponibilità di
cessione da parte dei legittimi proprietari sia della difficoltà a reperire
una comunità benedettina che si accollasse l’onere di una filiazione. Ma la
storia, alla lunga, anche dopo circostanze tragiche, riannoda i fili
spezzati, avvicina realtà e finalità che sembrano distanti, pacifica e
rimargina lacerazioni che sembrano insanabili.
Da una terribile sciagura, perpetrata nella lontana
terra d’Africa, come un fiore tra le spine, germinò e crebbe, in coscienze
cristiane provate ma purificate nella memoria, un progetto di perdono e di
pacificazione che investì e coinvolse anche il monastero di Piona.
Il 12 novembre 1935 il dottore Emilio Secondi di Torino
vendeva la proprietà del monastero al commendatore Pietro Rocca, esponente
di una famiglia imprenditoriale che, di lì a poco, fu segnata da una
irreparabile disgrazia.
Cesare, fratello del commendatore, dopo un periodo di
attività presso la Società di Val Formazza, era partito per lavorare in
Africa alle dipendenze della Società Gondrand ed aveva ottenuto
l’affidamento della costruzione di un tronco stradale nella zona di Fil‑Fil.
Il cantiere fu trasferito, in seguito, a Mai-Lalà, qualche chilometro al di
là dell’antico confine eritreo, oltre il Mareb, a poche centinaia di metri
dalla prima linea dov’era, allora, attestato il fronte italiano durante la
campagna etiopica. Nella notte tra il 12 e il 13 febbraio due colonne
dell’esercito etiopico diedero l’assalto e seminarono la strage nel
cantiere Rocca: Cesare e la moglie Lidia Maffioli vennero travolti nella
sciagura.
Dopo la tragedia nel cuore del commendatore Pietro e in
quello della madre, Annetta Pogliani, incominciò a germinare il desiderio
di un progetto nobile per ricordare il sacrificio di Lidia e di Cesare
«un’opera di bontà cristiana che perpetuasse l’olocausto delle loro giovani
vite e quelle di tutti i loro compagni di lavoro, generosamente
sacrificatisi per la grandezza della patria».
Il progetto si concretizzò tramite la mediazione del
professore Luigi Pirelli, oriundo di Varenna, reduce dall’Asmara. Questi,
durante una visita nell’abbazia di Casamari, raccolse la voce che la
comunità monastica da qualche anno si preparava, per incarico della santa
Sede, all’impiantazione del monachesimo cattolico in Etiopia. Egli
prospettò, dunque, al commendatore Rocca la possibilità di legare le due
realtà e di affidare, in segno di perdono e di purificazione della memoria,
il monastero di Piona alla Congregazione di Casamari che si sarebbe
impegnata all’insediamento di una comunità di monaci nell’antico priorato
cluniacense. Dalle lettere d’intesa intercorse tra il professore Pirelli,
il commendatore Rocca, l’abate di Casamari e il vescovo di Como emerge con
evidenza il proposito che la presenza dei monaci cistercensi in Piona
dovesse servire non solo a perpetuare la memoria dei coniugi Rocca, ma
dovesse costituire anche, e soprattutto, un gesto tangibile di
riconciliazione, di pacificazione della memoria, di superamento di ogni
inimicizia, di augurio di un mondo migliore fondato sulla collaborazione.
Il 20 settembre, l’abate di Casamari, p. Angelo Savastano, scriveva, tra
l’altro, al vescovo Alessandro Macchi di Como: «Il ripristino del vetusto
cenobio, col perpetuare la memoria dei coniugi Rocca, barbaramente
trucidati in Africa Orientale nell’eccidio del cantiere Gondrand, avrebbe
lo scopo precipuo di dare maggior incremento alla nostra istituzione
Collegio Etiopico per il monachesimo indigeno che già da sette anni
fiorisce qui in Casamari».
Il 25 settembre 1937 il commendatore Pietro Rocca,
assistito dalla madre faceva “ampia ed irrevocabile donazione” di tutta la
tenuta di Piona alla Congregazione cistercense di Casamari al fine di
“eternare la memoria dei loro congiunti, Cesare e Lidia, e perché detti
Padri cistercensi, vi istituiscano una loro casa religiosa, rimettendo,
così, in onore la celebre abbazia”. Il 13 febbraio 1938, a due anni esatti
dal massacro di Mai‑Lalà, un drappello di monaci bianchi, provenienti da
Casamari, accompagnati dal p. abate don Angelo Savastano, accolti dal
vescovo diocesano mons. Alessandro Macchi, dalla famiglia Rocca, da una
folta rappresentanza del clero dell’alto Lario, prese canonicamente
possesso del priorato, tra due ali di folla festante. Alla fine del solenne
pontificato, dopo i discorsi ufficiali, fu scoperta, ad perpetuam rei
memoriam, una lapide commemorativa sopra la porta d’ingresso al
chiostro. Il commendatore Rocca, nel suo diario, finemente annotava: «Così,
insieme ad una delle migliori valorizzazioni di quell’arte che fu coltivata
con tanto gusto e finezza dal maestri comacini, il visitatore sentirà la
bellezza e la santità di un sacrificio, e la preghiera gli salirà spontanea
sulle labbra: le preghiere non hanno bisogno di monumenti, ma li fanno
sorgere. Non si è voluto solo riaprire al culto una chiesa e rioffrire ai
turisti un’altra squisita testimonianza di un’arte lombarda, ma si è voluto
dare a Piona una vita feconda di bene, affidando l’abbazia ai Padri
cistercensi di Casamari».
Dopo quattro secoli di silenzio e di abbandono, il
monastero ha sentito di nuovo pulsare la vita ed ha vissuto un’altra
intensa stagione lavorativa in opere di risistemazione, di adattamento, di
sbancamento, frutto di perizia, di sensibilità, di amore, secondo lo
spirito del primitivo movimento cistercense – amatores Regulae, fratrum
et loci – e secondo le caratteristiche dell’architettura cistercense,
fondata sul criterio della gravitas, per cui tutta la struttura ed
ogni elemento di essa sembra traspirare geometria ed armonia ed ogni cosa
risponde ad un’esigenza di ordine e di decoro che conviene alla casa di
Dio. I monaci hanno fatto di Piona la perla del Lago di Como con interventi
tesi ad esaltare senza contraffare, ad abbellire senza tradire la struttura
originaria. Prima di morire il commendatore Pietro Rocca ha voluto compiere
un altro atto di genuino affetto, vendendo ai monaci la Malpensata, una
villa cinquecentesca, immersa nel verde e nel silenzio, che si affaccia sul
lago con quattro loggiati sovrapposti di cinque arcate l’uno, sorrette al
lati da due robusti avancorpi, fortemente ancorata, nella parte posteriore,
al declivo della collina. La villa, costruita sui ruderi del massericio,
anticamente epicentro della vita economica e sociale del monastero e delle
poche famiglie di Olgiasca, è stata restituita alla originaria funzione di
luogo di carità.
Dal 1983, infatti, la comunità monastica – eretta già
dal 1970 a priorato conventuale con larga autonomia amministrativa – ha
concesso la villa al Padri Somaschi e in seguito, alla associazione “Il
Gabbiano” che ne ha fatto un centro per il recupero di giovani
tossico-dipendenti. La comunità monastica ha curato anche la
ristrutturazione di un fabbricato a fianco della chiesa e lo ha adibito per
foresteria di gruppi autogestiti con la denominazione fortemente evocativa,
di Oasi San Benedetto. Tanti turisti restano, infatti, spesso sorpresi
dalla presenza e dalla vitalità di alcune comunità monastiche; si recano a
visitare e ad analizzare il monumento e si vedono investiti dal calore
composto e solenne di una liturgia che emana dalla profondità dei secoli,
avvertono il respiro lungo della storia che si incarna in un umanesimo
vissuto. Manifestano anche il desiderio di condivisione della spiritualità
benedettina, organizzata sul ritmo dei tre momenti intercomunicanti dell’ora,
del labora e della lectio in monasteri che, dopo la
spogliazione dei paludamenti feudali, sono tornati alla primitiva ed
incisiva funzione di testimonianza dell’amore del Cristo crocifisso e
risorto, di luoghi dello spirito in cui “nell’esercizio delle virtù e
nella fede, il cuore si dilata e la via dei divini precetti viene percorsa
nell’inesprimibile dolcezza dell’amore” (San Benedetto, Regola).
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