I Cistercensi

Storia dell’Ordine cistercense

Le riforme monastiche dell’undicesimo secolo

L’anno mille può essere considerato giustamente un momento decisivo di svolta nella storia dell’Europa Cristiana per ragioni molto più importanti che la sua convenienza di presentarsi come cifra tonda.

Era fallito il primo tentativo di stabilire pace, prosperità e ordine civile sulle rovine dell’Impero Romano, effettuato dalla cosiddetta Rinascita Carolingia.

Il glorioso impero di Carlo Magno si frantumava sotto gli antagonismi dei suoi nipoti e le pallide luci dell’insegnamento e della pietà monastica venivano spente da una nuova ondata di invasioni barbariche. I Vichinghi assalivano dal Nord, i Saraceni dal Sud, gli Ungheresi dall’Est. Verso la fine del IX secolo si poneva non tanto il problema della difesa della civiltà cristiana quanto quello della sopravvivenza della stessa cristianità.

I barbari, una volta di più, facevano delle scorrerie, a cavallo o sulle loro navi, per tutto il continente: Roma e Parigi erano esposte all’assalto allo stesso modo di Bordeaux, Marsiglia o Napoli. Rovine ancora fumanti di abbazie un tempo così potenti punteggiavano le distese devastate, mentre il papato affondava per divenire una istituzione dal significato ormai esclusivamente locale.

Ma verso la metà del X secolo, cominciarono a moltiplicarsi dei segni di speranza. L’impeto delle invasioni barbariche diminuì. Sia gli uomini che provenivano dal Nord che gli Ungheresi si insediarono nelle terre recentemente conquistate, si integrarono con il mondo cristiano e divennero dei collaboratori attivi nel lento processo di ricostruzione. Ottone I, un Sassone, tentò di creare una parvenza d’ordine nelle terre germaniche, rinnovò l’Impero e riuscì a risollevare il Papato dalle situazioni incresciose in cui si trovava, oppresso tra le contese delle famiglie più potenti di Roma, perpetuamente in lotta fra di loro. Nel frattempo, Cluny, in rapida espansione, restituiva nell’Europa Occidentale rispetto e fiducia alle istituzioni monastiche.

All’avvicinarsi della fine del secolo, era stato raggiunto un livello elementare di ordine e di sicurezza di fronte alle invasioni. Questo modesto successo poneva le basi per la fioritura di uno spettacolare sviluppo di energie creative su cui si innestò la nuova civiltà dell’Alto Medio Evo. Nel secolo XI le istituzioni feudali raggiungevano un pieno sviluppo. La stessa epoca vedeva la comparsa delle città medioevali e una notevole rinascita del commercio e dello scambio internazionale. Le nuove cattedrali e le scuole municipali ben presto offuscavano lo splendore degli antichi centri di studio delle abbazie, e preparavano la via al sorgere delle università. I laici approfittavano con entusiasmo delle nuove possibilità e dei professionisti, tecnicamente preparati, iniziavano a sostituire vescovi ed abati nelle posizioni chiave del governo e dell’amministrazione. Per non molto tempo ancora artisti, studiosi e poeti resteranno umili ammiratori dell’antichità classica.

La nuova architettura romanica dà prove di sorprendente originalità sia nelle concezioni di ingegneria che nei dettagli decorativi. Sant’Anselmo, Arcivescovo di Canterbury può essere giustamente considerato il padre della Scolastica e il suo contemporaneo, Guglielmo IX, Duca di Aquitania, può essere detto l’iniziatore della poesia di corte (il primo “trovatore”). In Lombardia si riesumò lo studio del diritto romano e questo, a sua volta, ispirò il sorgere del diritto canonico. Non c’è tuttavia esemplificazione o prova più tangibile del sorprendente vigore e della grande fiducia di sé della nuova Europa del contrattacco promosso con successo per respingere gli infedeli: si tratta della eroica riconquista della Spagna e della Prima Crociata, che portò lontano migliaia e migliaia di cavalieri francesi per la liberazione di Gerusalemme.

Tuttavia, la ragione per cui gli storici moderni considerano l’XI secolo epoca di rivoluzione, comparabile nel suo impatto, con la Riforma o con la Rivoluzione Francese, consiste nell’improvviso rovesciamento che ebbe luogo nel campo delle relazioni Chiesa-Stato, comunemente noto come Riforma Gregoriana. Ma il termine dì riforma non è perfettamente adeguato. Non sì trattava soltanto di uno sforzo per sradicare degli abusi e per ritornare a qualche forma più antica della vita della Chiesa: si trattava della esigenza di un cambiamento drastico. Infatti, si trattava di un conflitto ideologico rivolto a sradicare delle tradizioni ormai superate per stabilire nel mondo un ordine nuovo, più adatto alle circostanze in via di mutazione.

Dopo il breve esperimento dell’epoca carolingia, era stato raggiunto un equilibrio apparentemente durevole nelle relazioni tra Chiesa e Stato durante l’Impero degli Ottoni e poi nei primi anni di quello dei Salici: era un equilibrio caratterizzato dalla compenetrazione della ecclesia e del mundus.

L’imperatore non era soltanto un governatore secolare, ma era insieme rex et sacerdos, ed aveva l’obbligo sia di proteggere che di propagare la Chiesa, godendo di ampia autorità nelle nomine ecclesiastiche come nelle funzioni clericali. Parallelamente, la gerarchia della Chiesa era pienamente integrata con la nascente società feudale, ed assicurava, oltre alla amministrazione dei sacramenti, una notevole gamma di doveri di governo, di amministrazione della giustizia e perfino militari. In ampi settori, le autorità del papa e dell’imperatore si sovrapponevano: una specie di protettorato dell’imperatore sul papato non era soltanto tollerato, ma spesso perfino auspicato.

Questa situazione di fatto non era mai stata così evidente come sotto Enrico III (1039-1056): questi era un asceta pio ed austero, un monaco pur nelle sue vesti mondane. Al Sinodo di Sutri (1046) egli aveva risolto uno scisma scandaloso: deponeva tre pretendenti al soglio pontificio (Benedetto IX, Silvestro III e Gregorio VI) e determinò le tre elezioni papali successive, il terzo papa era suo zio, Leone IX, (1049-1054), il primo promotore della riforma Gregoriana.

Ma, improvvisamente, nel 1059 si ebbe un drastico cambiamento: venne pubblicato un famoso decreto per l’elezione del pontefice, e un altrettanto famoso lavoro del Cardinale Umberto di Silva Candida I Tre Libri contro i Simoniaci. Sotto la bandiera che reclamizzava libertà per la Chiesa ebbe inizio la lotta contro l’influenza dei secolari nell’amministrazione ecclesiastica e contro il coinvolgimento dei chierici negli affari secolari. Il primo di questi conflitti può essere indicato sinteticamente come La Lotta per le investiture e il secondo come le riforme contro la simonìa (comperare o vendere le cariche nella Chiesa) e il nicolaismo (matrimonio dei chierici). Entrambe queste due fasi del conflitto raggiungevano un punto drammatico sotto il pontificato di Gregorio VII (1073-1085): egli si prefiggeva, evidentemente, la ristrutturazione totale della cristianità, per arrivare a una separazione della Chiesa e dello Stato a livello istituzionale. La realizzazione di tali obiettivi compomportava che si togliessero all’imperatore i poteri quasi sacerdotali di cui godeva, per assicurare al Papa una giurisdizione estesa ed effettiva su tutta la Chiesa; il clero doveva essere ricondotto a una integrità morale, in una netta separazione dal mondo; nel caso di conflitti tra il potere secolare e il potere ecclesiastico, l’arbitrato decisivo doveva essere concesso al Papa.

Un programma così rivoluzionario non poté essere pienamente realizzato né da Gregorio né dai suoi successori, ma nel corso di 50 anni, segnati da una incessante discussione; ogni.phpetto della vita cristiana, compresa la vita monastica, venne sottoposto a una revisione critica. La rinascita della vita monastica nel secolo XI può essere perciò compresa esattamente solo come parte integrale della Riforma Gregoriana. Il rinnovamento era divenuto inevitabile non tanto a causa della decadenza morale o dell’indebolimento della disciplina, quanto per la necessità in cui versavano i monaci, di ritrovare cioè il loro posto in una società in rapida evoluzione.

I fatti assomigliano alle visioni magiche di un vecchio caleidoscopìo. Quando colui che guarda gira il caleidoscopio, tutte le particelle che contiene devono muoversi per forza, ed assumono ogni volta una posizione diverso nella disposizione dei colori, ma sempre in un perfetto equilibrio ed armonia. Chi cerca di giustificare qualsiasi riforma monastica di un certo rilievo elencando gli incidenti, quali abusi o grossi errori, sta bussando a una porta sbagliata.

Purtroppo, le debolezze degli uomini sono sempre state evidenti anche nei monasteri più perfetti. Ma l’undicesimo secolo non dava segni clamorosi i “decadenza” monastica. Al contrario, durante l’abbaziato di Ugo il Grande (1049-1109), il cosiddetto “impero” di Cluny raggiungeva il suo apogeo, con un numero infinito di filiazioni dirette o indirette. La moda che invalse nel secolo XI di criticare il monachesimo benedettino si può spiegare in gran parte con il fatto che Cluny e le filiazioni dipendenti tardarono a rendersi conto dei cambiamenti che avvenivano attorno a loro e furono ancora più lenti nell’adattarsi alle nuove condizioni.

Infatti, contrariamente a quanto spesso si afferma e si crede, la spiritualità di Cluny non ebbe un ruolo diretto nell’ambito della Riforma Gregoriana. L’abate Ugo era un po’ meno che entusiasta delle idee più avanzate di Papa Gregorio e invece di sostenerle, tentò di farsi mediatore tra il Papa ed Enrico IV. Il compito di questo grande abate nelle conseguenze del famoso incontro di Canossa è stato attentamente considerato.

L’atteggiamento critico verso le forme tradizionali della vita monastica proveniva da varie fonti, ma la maggior parte delle volte derivava dagli stessi monaci.

San Pier Damiani è la più conosciuta e certamente la più influente tra le figure dei critici: nonostante la sua alta posizione nella Curia, parlava di sé come di un monaco pieno di peccati (peccator monachus). Egli accusava molti a abati del suo tempo di esibizionismo mondano: perché trascorrevano più tempo presso le corti dei re che nei loro monasteri; erano più abili in politica che nelle questioni pertinenti la loro funzione abbaziale; erano costantemente coinvolti in litigi a proposito di beni materiali e di rendite. Egli non nutriva nessuna stima per i grandi costruttori che abbellivano le loro chiese ed ingrandivano le loro abbazie. Non poteva resistere dal raccontare una visione avuta sul famoso abate Riccardo di Saint-Vanne nell’inferno, condannato per sempre a costruire delle impalcature come castigo per il suo gusto stravagante per la bella architettura. San Pier Damiani non apprezzava molto lo splendore della liturgia e criticava l’inutilità del suono delle campane, il canto prolungato degli inni e l’uso eccessivo degli ornamenti. In una memorabile visita, fatta a Cluny nel 1063, notò che i vari uffici erano talmente lunghi che nell’orario quotidiano c’era sì e no una mezz’ora libera per fare un discorso con i monaci. Contemporaneamente deplorava la mancanza di mortificazione e di penitenza, soprattutto nel cibo e nella bevanda.

Altre critiche mosse alla vita monastica, che potrebbero essere moltiplicate all’infinito, accusavano la presenza dei secolari fra i monaci, in una convivenza che si giustificava con vari pretesti; andavano contro la presenza dei bambini e il disturbo che ne derivava, così pure contro la presenza di altri individui non desiderati; contro i monasteri costruiti tanto vicini alle città che la loro solitudine ne veniva messa in pericolo; contro i viaggi inutili e contro un diffuso vagabondaggio invalso tra i monaci.

Si faceva notare che la condizione sacerdotale di molti monaci serviva soltanto come pretesto per trascurare il lavoro manuale; l’assunzione di impegni pastorali conduceva a competizioni sconvenienti con il clero secolare. Infatti, continuavano ad aggiungere le critiche, molti abati usurpavano poteri episcopali, acquistavano volentieri delle chiese e molti altri lucrosi benefici, il possesso dei quali era sconveniente per i monaci.

Lo scontento del clero secolare per il modo in cui vivevano i monaci divenne evidente in molti sinodi provinciali, tenuti in Francia, nel corso del secolo XI. Nel 1031 il sinodo di Brouges sottolineava le virtù di obbedienza e di stabilità, e minacciava di scomunica i monaci vagabondi. Il concilio di Tolosa del 1056 accusava gli abati che non osservavano i loro doveri, è dava molta importanza alla virtù della povertà, che veniva trascurata. Nel 1059 una riunione simile a Rouen rimproverava ai monaci la loro vanità nel ricercare posizioni elevate o grandi dignità. Nei sinodi successivi di Tolosa (1068) e di Rouen (1074) il clero secolare ingiunse ai monaci di aderire fedelmente all’osservanza della Regola di san Benedetto senza mitigazioni su quanto vi era prescritto per il silenzio, per le vigilie, per i digiuni e per l’abito.

Sembra che agli occhi di molti contemporanei la radice di questi abusi consistesse nella incoscienza con cui i monaci vivevano il loro ruolo e il loro posto nella Chiesa. Questa convinzione apparve negli scritti di Guglielmo di Volpiano (962-1031), riformatore dell’abbazia di San Benigno di Digione. Egli deplorava che non ci fosse distinzione fra il modo di vivere del clero secolare e della gente del popolo, o tra i monaci e i preti. Giovanni di Fécamp, suo nipote, poneva la stessa cosa in una luce ancora più evidente quando, seguendo Gregorio Magno, insisteva che ci doveva essere una più chiara linea di demarcazione tra il laicato e il clero secolare e un posto ugualmente diverso per i monaci, che dovevano trascorrere la loro vita nell’ascesi e nella solitudine.

Nonostante le loro molte debolezze, bisogna riconoscere ai monaci di quel tempo gli sforzi coraggiosi sostenuti per riformare la loro vita, secondo le direttive ricevute da quanti li criticavano. Nuove ferventi fondazioni si moltiplicarono, dalla Calabria all’Inghilterra, mentre in pratica tutte le abbazie più antiche, che godevano di una certa fama, intrapresero l’arduo lavoro di emendare le loro osservanze.

Le tre idee-forza che guidarono il rinnovamento della vita monastica nell’XI secolo furono la povertà, l’eremitismo e la vita apostolica. Questi tre valori si integravano e si sovrapponevano e tutti, in certa misura, erano già stati integrati nella Regola di san Benedetto: ma il loro riapparire avvenne con la riscoperta delle forme più antiche di vita monastica. L’originalità delle nuove fondazioni consisteva in gran parte in una integrazione particolare di questi tre elementi fondamentali.

I critici del tempo stigmatizzavano, come primo bersaglio, il lusso e la ricchezza, mentre i riformatori esortavano alla più rigorosa povertà come ad un primo passo da compiere per una rinascita significativa. La nuova accentuazione sulla povertà emergeva come reazione spontanea di fronte alla prosperità economica. Il problema era avvertito tanto profondamente, che, nell’XI secolo, alla ricerca di una soluzione, i riformatori oltrepassarono la Regola di san Benedetto per ritornare alla povertà del Cristo sulla Croce, alla povertà degli apostoli e dei loro primi discepoli. Sembrò che il movimento partisse agli inizi del secolo in Italia per diffondersi ben presto in tutto il resto d’Europa. Al riemergere di eresie dualistiche, che disprezzavano le realtà materiali e condannavano le ricchezze e i beni terreni, va aggiunto l’urto dei predicatori della povertà, mezzo-vestiti e con un.phpetto stravagante, che vagavano in crescente numero per le campagne.

Non soltanto preti e monaci, ma anche i laici furono affascinati dall’idea di un’assoluta povertà, come dimostra per esempio l’apparire dei Patarini nel Nord-Italia, sui quali sono state fatte molte ricerche.

Sotto questo.phpetto, l’insegnamento di san Pier Damiani, per quanto esigente, non può essere considerato estremo. Egli sostituiva la moderazione benedettina (sufficientia) con la severità (extremitas) e la povertà estrema (penuria) ed incoraggiava i suoi seguaci ad andare scalzi, a dormire su pagliericci molto duri e ad accontentarsi di un minimum per l’abito, il cibo e la bevanda. Egli affermava che Dio deve essere l’unico possesso del monaco: e considerava perciò apertamente peccaminoso conservare del danaro, come se fosse una violazione del voto fatto dal monaco al momento della professione. «Torniamo allora, o miei cari, all’innocenza della Chiesa primitiva, al fine di apprendere ad abbandonare ogni possesso ed a godere della semplicità della povertà regale». Così esortava Pier Damiani i suoi discepoli.

Nessuna istituzione religiosa poteva sottrarsi all’impatto di questa corrente. La frase poveri di Cristo divenne referenza abituale per indicare sia i monaci che i canonici regolari ed era una frase che appariva spesso nella corrispondenza di Gregorio VII. Nulla può documentare meglio la forza e la pressione esercitata da questa idea dello strano tentativo fatto da Pasquale II, già monaco di Vallombrosa, per giungere a una soluzione nella lotta delle Investiture. Nel 1111, davanti allo stupore di tutta l’Europa, egli propose che, in cambio della totale esclusione dei secolari dall’interferire nei problemi della Chiesa, la gerarchia nominata dall’imperatore avrebbe abbandonato le terre che possedeva, perché concesse precedentemente dalla corona.

La rinascita dell’eremitismo, sia come idea che come fenomeno, era strettamente connessa con il nuovo concetto di povertà. Un eremita non solo si ritira dalla società, ma vive in una totale rinuncia, in una totale povertà, sia interna che esterna. Come aveva detto san Gerolamo: “nudos amat eremus: il deserto ama coloro che non hanno nulla”. Le radici del movimento si rifanno alle origini della vita monastica in Egitto, in Siria, dei primi secoli del cristianesimo. L’eremitismo era sopravvissuto, come forma di vita religiosa, soprattutto in Oriente, nonostante la popolarità crescente del cenobitismo. Ma sembra anche, che perfino in Occidente fosse continuata ininterrotta, fino al secolo XI, una tradizione di vita eremitica.

Ma ciò che è nuovo, nell’epoca che stiamo esaminando, è la sua enorme popolarità, la rapida diffusione geografica, la sua penetrazione in tutti gli strati della società contemporanea. Per cercare di spiegare l’oggettività dei fatti, si è proposto di mettere in rapporto questo movimento con i problemi socio-economici dell’XI secolo. Ma le situazioni erano molto diverse secondo le regioni geografiche, mentre la chiamata all’eremitismo sembra essere stata universale. La supposizione che vede un rapporto di causalità fra questi fenomeni resta perciò ambigua.

La rinascita della vita eremitica divenne visibile prima in Italia che negli altri paesi; si pensa allora che il movimento sia stato ispirato da alcuni anacoreti orientali che si stabilirono nella penisola dopo essere stati espulsi dalla loro patria dall’avanzata dell’Islamismo. Contatti di carattere religioso tra l’Italia e l’impero bizantino non erano mai stati interamente interrotti; d’altronde, pochi eremiti non avrebbero potuto facilmente importare delle novità di così grande importanza. Ben di più, anche se l’influenza esercitata in alcuni luoghi da eremiti bizantini come da san Nilo in Calabria, può essere stata considerevole; tali elementi isolati non possono spiegare adeguatamente la diffusione dell’ideale eremitico d’oltr’Alpe. E forse più sicuro affermare che la vita eremitica, al pari della nuova e più rigorosa interpretazione della povertà, emergeva come reazione di fronte ai modelli diffusi di vita monastica, quale protesta spontanea contro le comodità e la quieta routine quotidiana dei monaci delle grandi abbazie, che non offrivano più un ideale di vita sufficientemente valido, e sfidavano perciò le persone che pesavano con nostalgia e desiderio alla vita eroica dei padri del deserto.

Questo atteggiamento comporta chiaramente che, agli occhi della nuova generazione dì riformatori, la vita eremitica appariva come ideale più alto di quella vissuta sotto la Regola di san Benedetto. E di conseguenza il monastero era concepito come campo di addestramento per futuri eremiti.

Così lo affermava san Pier Damiani: “come il sacerdozio è la meta dell’educazione clericale, l’abilità nelle arti è lo scopo per cui si frequentano le scuole dei grammatici, e come le brillanti arringhe sono la vetta cui culmina lo studio monotono di lunghe ore dedite ad approfondire la legge, allo stesso modo la vita monastica con tutte le sue osservanze è solo una preparazione per quella più alta meta, che è la solitudine dell’eremo”. Il monastero, affermava, è accettabile per i malati e gli infermi; e colorò che scelgono di restarvi per sempre possono soltanto essere “tollerati”.

Il durevole influsso dei singoli eremiti fintanto che restano realmente nella solitudine e nell’isolamento, propone un problema particolare. Ovviamente questa gente passa senza lasciare sugli altri nessuna impronta, quale che sia il grado di profondità o di ricchezza interiore della loro vita spirituale. D’altra parte, la presenza di discepoli poteva facilitare la trasmissione di valori monastici, ma avrebbe distrutto l’esperienza di solitudine ed avrebbe coinvolto l’eremita in una qualsiasi forma dì vita organizzata, cioè in qualcosa che appunto egli cercava di evitare. Gli individui sono effimeri. Solo le istituzioni perdurano. I più grandi eremiti dell’ XI secolo risolsero il dilemma venendo a delle concessioni, e finirono con il diventare fondatori dì comunità religiose dove la solitudine era armonizzata con alcuni elementi di vita cenobitica.

Camaldoli, Fonte Avellana, Vallombrosa, Fontevrault, Savigny, Grandmont, la Grande Certosa e Obazine sono semplicemente le più conosciute fra molte altre simili fondazioni di tendenza eremitica, dove alcune strutture istituzionali garantirono la sopravvivenza di una spiritualità caratteristica anche per molto tempo dopo la scomparsa degli eremiti che le avevano fondate e la scomparsa della popolarità dell’eremitismo.

Il terzo elemento ispiratore del rinnovamento monastico fu il desiderio di imitare la vita degli apostoli o, più esattamente, la vita della comunità apostolica di Gerusalemme, nella povertà, semplicità e mutua carità.

Bisogna sottolineare però che nell’XI secolo la parola apostolico non comportava nessun significato di predicazione del Vangelo o disimpegno di altri obblighi di carattere pastorale (cura animarum); la “sequela degli apostoli” poteva benissimo realizzarsi all’interno dei programma di vita dei contemplativi come degli eremiti. D’altro lato, il richiamo della vita apostolica si estendeva ben oltre i limiti dell’ambiente monastico. Essa ispirava i canonici regolari, i predicatori itineranti, i movimenti popolari laici e molte caratteristiche della Riforma Gregoriana. Nessun fatto dimostra con più eloquenza la forza elementare del movimento quanto la difficoltà sperimentata dall’autorità della Chiesa nel contenere il numero crescente dei predicatori itineranti entro i limiti della moderazione e della ortodossia. Anche una persona così conosciuta come Roberto di Arbrissel, fondatore di Fontevrault, fu severamente ripreso dal Vescovo di Rennes per il suo.phpetto strano e il suo comportamento stravagante.

L’influenza della Chiesa primitiva sulla vita monastica è antica quanto lo stesso monachesimo. La novità era l’urgenza e l’estensione della istanza di riforma, rivolta alle comunità religiose, alla luce del Nuovo Testamento. Pier Damiani obbligava i suoi seguaci a “ritornare all’innocenza della Chiesa primitiva”. Al Concilio di Roma del 1059, Ildebrando usava di fatto le stesse parole, per domandare la restaurazione della vita comune, così come era vissuta nel primo secolo.

Secondo Stefano di Muret, un autentico povero di Cristo della generazione successiva, le regole scritte dagli uomini sono solo di importanza secondaria; perciò, “se qualcuno ti chiede a quale ordine religioso appartieni, rispondigli all’Ordine del Vangelo, che è il fondamento di tutte le regole”. Un trattato dei primi anni del XII secolo Sulla vera vita apostolica (De vita vere apostolica), attribuito a Ruperto, abate di Deutz, andava anche più lontano: “Se vuoi consultare degli importanti passi della Scrittura, troverai che tutti sembrano affermare semplicemente che la Chiesa ebbe origine nella vita monastica”. Infatti la Regola di san Benedetto era un adattamento della “regola degli apostoli” (regula apostolica). Perciò egli continuava affermando che gli apostoli erano stati monaci e che così i monaci erano gli autentici successori degli apostoli.

Le conseguenze di tali affermazioni sono abbastanza chiare. I monaci dovevano liberarsi dal loro coinvolgimento eccessivo nella società feudale; dovevanio abbandonare le loro splendide residenze, i loro cerimoniali complicati, il benessere e le comodità che il lavoro dei loro predecessori aveva reso possibile. I monaci fedeli alla loro eredità apostolica dovevano allontanarsi dal mondo e cercare di rinnovare la loro vita nella semplicità, nella povertà, nel lavoro manuale e nella carità.

Oltre ai tre motivi di rinnovamento monastico esposti fino ad ora, molti autori si: riferiscono a un altro movimento ad essi analogo: il ritorno alle fonti del monachesimo cristiano. È innegabile che tutti i riformatori cercano di giustificare le loro esigenze riferendosi alla Bibbia, ai Padri del Deserto o alla Regola di san Benedetto; ma è molto dubbio che una manifestazione di questo tipo costituisse un “movimento” caratteristico del secolo XI. Riformatori di tutti i tempi e di tutte le designazioni hanno usato la stessa tattica per giustificare nuovi approcci. Cambiamenti, innovazioni, rotture con il passato ben di rado hanno generato grande entusiasmo tra i monaci. Quanti propongono movimenti di questo genere si sentono obbligati a dissimulare le loro intenzioni sotto il tentativo di fare ritorno a tradizioni più antiche e già consacrate dal passato.

Al tempo stesso, le alterazioni radicali nella struttura di una società richiedono delle riforme nelle istituzioni. Intraprendere dei cambiamenti istituzionali che corrispondono a necessità nuove è segno di un salutare istinto di sopravvivenza. In tali circostanze una organizzazione tradizionale non può assicurare in modo sufficiente il proprio aggiornamento semplicemente ritornando a delle osservanze e a dei modi di fare che sono indubbiamente antichi. Il problema può essere risolto grazie a degli accorgimenti che sono davvero fedeli alle tradizioni più valide; ma è molto dubbio che i riformatori monastici dell’XI secolo fossero consapevoli, e fino in fondo, della natura del loro compito e fossero sinceramente dei cultori convinti del passato. È certo che non erano in grado di interpretare esattamente le loro fonti, per il semplice fatto che restavano in certa misura incoscienti delle differenze fondamentali che separavano la mentalità dell’antico mondo romano dalla loro.

I riformatori seguirono il loro istinto nell’uso che fecero delle fonti di cui disponevano. Si nota così una sorprendente libertà, una varietà di interpretazioni contraddittorie della regola di san Benedetto. Il testo della Regola, in una forma praticamente identica, era certo disponibile a tutti i monaci, da Benedetto di Aniano fino a Roberto di Molesme. Nessuno osava rifiutarne l’autorità. Alcuni, come Stefano di Mureti praticamente la ignorarono; altri, come san Bruno, ne abbracciarono solo alcuni elementi. La maggior parte dei riformatori, pur professando una altissima fedeltà alla Regola, la interpretarono, senza lasciarsi prendere da scrupoli ermeneutici.

Questo rese possibile un’ampia serie di fondazioni: i monasteri basilicali romani, le abbazie missionarie degli Anglo-Sassoni, i centri di studio monastici, le abbazie liturgiche dell’epoca carolingia, le abbazie centri di pellegrinaggio, le abbazie cluniacensi dedite al culto, e le abbazie di tendenze eremitica dell’XI secolo.

Il più chiaro portavoce delle “abbazie eremitiche” fu certamente san Pier Damiani il quale, mentre venerava la Regola di san Benedetto, riusciva leggerla secondo una propria ottica, particolarmente sensibile alla mortificazione Egli non vedeva nessuna incompatibilità fra le concezioni monastiche di san Benedetto e quelle dei suoi predecessori, specie i padri del deserto, perché egli sollecitava i suoi discepoli a conformarsi a “tutto ciò che si trova nella regola di san Benedetto o negli Istituti o nelle Conferenze dei Padri”.

Di fronte alla evidente moderazione della regola benedettina, egli argomentava che la Regola era stata scritta per condurre anime innocenti, che san Benedetto non aveva nessuna intenzione di sostituirsi ai canoni penitenziali che dovevano esser applicati ai pubblici peccatori, e che quindi la Regola non invalida i precetti dei Padri che l’avevano preceduta”. Egli stesso, comunque, era molto disposto a passar sopra, in pratica, ai primi settantadue capitoli della Regola per poi vivere secondo il pieno significato del capitolo settantatrè, che, infatti, rimanda agli esempi dei Padri del deserto.

I riformatori della seconda generazione, molto probabilmente, si resero conto delle contraddizioni interne di un simile approccio e reagirono riaccostandosi in modo più autentico e più reale al testo della Regola. Non fu solo Vallombrosa l’unica fondazione realizzata per una reale sequela della autorità della Regola di san Benedetto, ma Giovanni Gualberto “incormiciò con molta diligenza a discernere il significato della Regola, con l’intenzione di metterla in pratica in tutta la sua forza”, mentre sollecitava i suoi discepoli a seguirla in ogni cosa. Anche Bernardo di Tiron e Vitale di Mortain (di Savigny) assunsero degli atteggiamenti analoghi; lo zelo per una ancora più esatta osservanza della Regola fu l’autentica ragione della fondazione di Cîteaux.

Il denominatore comune di tutti i tentativi di riforma del secolo XI fu il desiderio di istituire una vita di mortificazione eroica, consumata nella separazione da ogni coinvolgimento negli affari del mondo. E in questo i fondatori delle nuove istituzioni monastiche riscossero un grande successo. Tuttavia, fu proprio il successo dei riformatori a favorire anche il germe di una nuova epoca di relativa decadenza. Pier Damiani e i suoi eredi riuscirono a istituire una vita di ascetismo eroico ed elevarono le loro nuove abbazie a un livello di perfezione monastica che mai prima di allora era stato raggiunto: ma simili strutture e modelli di vita non possono essere mantenuti indefinitamente. Insistendo sull’osservanza meticolosa di alcuni passi della Regola, essi avevano perso di vista il suo fondamentale equilibrio nello spirito di moderazione. San Benedetto era disposto ad andare incontro alla fragilità dell’uomo, mentre non lo erano molti tra i nuovi riformatori. Questi avevano rifiutato di riconoscere la verità nel rispetto delle istituzioni che devono fare i conti con i limiti dell’uomo medio e non con le ambizioni di santità di uomini eroici. Ancora una volta, la sapienza di san Benedetto si dimostrò molto più durevole dello zelo e degli entusiasmi di uomini “spirituali”. La maggior parte delle fondazioni eremitiche o semi-eremitiche si disintegrarono o furono assimilate in riforme successive oppure si insabbiarono e divennero insignificanti. Tra il nuovo gruppo di monaci, i Cistercensi rimasero in prima linea nella storia della vita religiosa dei secoli successivi.

Bibliografia

(...)

L.J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, I, Certosa di Pavia, 1989.

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