I Cistercensi

Storia dell’Ordine cistercense

I Cistercensi e l’Ancien Regime

Il fervore religioso che animava la Stretta Osservanza non era per nulla limitato alla sola Francia. Non appena ebbe termine, con la pace di Westfalia (1648) quel secolo distruttivo di guerre di religione, lo spirito della rinascita cattolica poté manifestarsi in tutta l’Europa centrale e orientale. Fu quella l’epoca del Barocco, epoca caratterizzata dalla ricerca appassionata dello splendore e della magnificenza, della maestà e della gloria, ma anche epoca di entusiasmo religioso, che si esprimeva visibilmente nelle arti figurative, nella musica, nel misticismo, nei cerimoniali fastosi della liturgia e della devozione popolare. Il messaggio monastico, vestito di nuove forme e di nuovi colori, raggiungeva nuovamente le masse dei cattolici. Le vocazioni si moltiplicavano e in molti casi i chiostri medioevali diventavano troppo piccoli e ristretti. Molte abbazie vennero completamente ricostruite o profondamente ristrutturate. I monasteri già in rovina, abbandonati o quasi dimenticati, ripresero vita e si ripopolarono di una nuova generazione di pionieri Cistercensi.

L’Ungheria, devastata e poi riconquistata ai Turchi, divenne nuovamente la patria di quattro abbazie ripristinate in pochi decenni. L’abbazia di Welehrad, in Moravia, con moltissimi monaci, mandava dei nuovi fondatori dapprima a Pasto (1702) e poi a Pilis (1712). Dopo alcuni tentativi non riusciti, il monastero svevo di Heinrichau acquistò e ricostruì Zirc (1726), una abbazia destinata a divenire un grande centro di rinascita della vita cistercense. L’abbazia austriaca di Heiligenkreuz si interessò al monastero cistercense di S. Gottardo, che era abbandonato, e si riaccese la vita monastica in una splendida abbazia, completamente ricostruita.

Lo zelo dei cistercensi in Polonia diede vita a nuove fondazioni in Lituania. Tra il 1670 e il 1710 vennero erette tre abbazie di monaci seguite poco dopo da una di monache. Alcune abbazie della Germania, in rovina e abbandonate durante la tempesta della riforma, sorsero a nuova vita. Waldassen, vicino a Regensburg, venne ripristinata nel 1669 da Fürstenfeld. Nel giro di pochi anni questa abbazia, come risuscitata, era abitata da cinquanta monaci e diventava un centro di magnificenza artistica durante il tempo del Barocco, e di pietà.

Nelle Mandre, che restarono sotto il governo austriaco per tutto il XVIII secolo, Villers si riprese completamente dalle guerre di Luigi XIV e nel 1734 contava 62 monaci. Nella stessa epoca, Aulne godeva di grande prosperità e verso la fine del secolo contava circa 80 sacerdoti. La comunità di Les Dunes si stabili a Bruges, dopo la distruzione della primitiva abbazia, e ricostruiva per la numerosa comunità un nuovo grandioso monastero, attualmente sede del seminario diocesano.

Nel lontano Portogallo, l’abbazia di Alcobaça raggiungeva il proprio apogeo nel XVIII secolo. Non solo la pianta degli edifici monastici si estendeva in un complesso di edifici monumentali, ma nel 1762 il numero dei monaci raggiungeva 139 professi. L’abate aveva il diritto di farsi rappresentare permanentemente alla corte da alcuni prelati, oltre che al Consiglio del Re; era personalmente onorato con il titolo di Gran Elemosiniere della Corte, e portava, tra i tanti altri, i titoli di Eccellenza e Difensore delle Frontiere. William Beckford (1760-1844), il noto autore e viaggiatore inglese, aveva visitato Alcobaça nel 1794 ed ha pubblicato una colorita descrizione dell’abbazia e dei suoi dintorni.

Stimava che i monaci fossero a quel tempo circa 400: egli elogiava la prodiga ospitalità dell’abbazia che organizzava concerti e rappresentazioni interpretate dai monaci nel teatro dell’abbazia. Ma quell’irriverente inglese apprezzava soprattutto la squisita cucina, preparata e servita in un locale dalle dimensioni enormi il tempio più ragguardevole della ghiottoneria in tutta Europa. Alcobaça non era il solo centro fiorente di vita monastica cistercense in Portogallo; Tarouca, Salzedas e Bouro, monasteri che contavano ciascuno più di 50 monaci, godevano di una simile prosperità. In Spagna molte abbazie, soprattutto la prestigiosa Poblet, continuarono ad espandersi attraverso tutto il secolo XVIII. Le abbazie svizzere condividevano lo stesso successo delle case della Baviera e della regione del Reno: soltanto in Italia, soprattutto a causa della mancanza di risorse finanziarie, si allentò il processo di ripresa.

Lo splendore del Barocco, la crescita a livello esterno camminavano generalmente di pari passo con una sorprendente rinascita morale e con un alto livello di disciplina monastica. Bisogna comunque ammettere che la civiltà fondamentalmente aristocratica dell’epoca barocca penetrò profondamente anche tra le file dei monaci. Gli abati assumevano, o almeno emulavano, il comportamento sociale dei principi del vicinato e i monaci spesso soccombevano alla tentazione di creare all’interno dei monastero l’atmosfera della vita di castello.

Una delle manifestazioni più appariscenti di questa tendenza spontanea fu l’amore appassionato per la musica. Ci furono tra i Cistercensi alcuni grandi compositori di vasta reputazione come il Fogliante Lucrezio Quintiniani di Cremona e johannes Nucius, abate di Himmelwitz, attento seguace dei suoi contemporanei olandesi e specialmente di Orlando di Lasso. Cori polifonici, e in alcuni casi anche orchestre, vennero regolarmente usati alle celebrazioni liturgiche nelle chiese, e degli ambiziosi monaci musicisti ebbero grandi occasioni di esibire i loro talenti nelle frequenti festività monastiche. In tali occasioni -proprio come avveniva in tutte le altre riunioni dell’aristocrazia -l’orchestra da camera intratteneva durante la cena i membri della comunità e gli invitati. In alcuni monasteri, del resto ben disciplinati in tutte le altre osservanze, tali abitudini si affermarono senza nessuna esitazione; in altri posti vennero condannate come intollerabili abusi. Il problema venne discusso nel Capitolo provinciale della Boemia nel 1737, dove gli abati presenti condannarono e proibirono musica a tavola in qualsiasi forma e in qualsiasi occasione. Il portavoce di questo partito anti-musicale, l’austero maestro dei novizi di Salem, Matthias Bisenberger, nel 1737 scrisse un saggio molto erudito, intitolato La musica dei monaci (De musica monacborum) che è un documento straordinario a riguardo. Nella sua descrizione sull’entusiasmo generale nutrito per la musica, certamente esagerava; una osservazione amara, comunque, è degna di essere riportata: “quando si riceve un candidato per il noviziato, gli si chiede prima, soprattutto e nient’altro che di musica. Non si fanno allusioni o non ci si informa sulla sua educazione, le sue qualità morali o sui suoi studi; soltanto, o almeno principalmente, si fa questa unica domanda: se conosce o no la musica”.

In Austria, la musica giocava un ruolo importante nella maggior parte delle abbazie cistercensi. L’abate Johann Seifried di Zwettl, (1612-1625) compose e inscenò con successo un oratorio. Più tardi, nello stesso secolo, uno dei suoi successori, Caspar Bernhard (1672-1695), scriveva nel suo diario le seguenti parole, prese a prestito dal salmo 150: “in questi giorni il nostro monastero risuonò di una musica gioiosa e ammirevole e con essa abbiamo lodato Dio con cori ed organo, con il felice fragore dei cembali ed anche con lo squillo di trombe e la voce dei corni”. Nel 1768, il giubileo dell’abate fu l’occasione della rappresentazione di una cantata scritta dai monaci stessi e intitolata Applausus. Quel bel lavoro venne orchestrato dal più grande genio della musica austriaca del tempo, Joseph Haydn.

Imitando l’aristocrazia del vicinato, ogni abbazia si gloriava di possedere bei pezzi d’arte o collezioni di interesse scientifico o storico. In alcuni casi i monaci allestirono dei laboratori di fisica ben attrezzati o anche degli osservatori astronomici. Un visitatore, monaco benedettino, lasciò la descrizione di Raitenhaslach, tre anni prima della secolarizzazione, come di una vera e propria casa dedita alle arti e alla scienza. Una galleria d’arte comprendeva 150 quadri di famosi pittori. La comunità possedeva un laboratorio per esperimenti di fisica splendidamente provvisto; diverse collezioni di botanica e di zoologia; un’eccellente biblioteca, ben fornita soprattutto di studi sulle scienze naturali. Eppure, l’ospite fu profondamente impressionato dalla disciplina esemplare dei 43 monaci.

A prima vista, questa strana mistura di tradizioni monastiche cistercensi e la mentalità barocca può sembrare forse grottesca o perfino contraddittoria. Tuttavia, si accettava la messa a punto delle usanze della vita monastica con la stessa disinvoltura e la stessa comprensione con cui il gusto dell’epoca barocca non avvertiva nessuna obiezione a rimodellare le chiese gotiche secondo il nuovo stile. Bartholomew Sedlak, segretario dell’abate di Heinrichau descrisse come era stato possibile combinare semplicità e magnificenza, povertà e munificenza, disciplina e rilassamento nell’abbazia di Salem, giungendo a una armonia incomparabile, in quello che era il grande centro della Congregazione di Germania. Padre Bartholomew, che apparteneva a una comunità ricca e fiorente, si avvicinò all’abbazia con risentimento di pregiudizio e di gelosia. Eppure il suo racconto, datato al 1768, riflette accuratamente la sua ammirazione per tutto quello che aveva visto e sperimentato. L’abate di Salem, patrono munifico e profondamente colto, nelle arti e nelle scienze, era onorato con il titolo di Eccellenza, quale responsabile di un territorio che dipendeva direttamente dall’imperatore (Reicksunmittelbar). Al suo arrivo il visitatore venne condotto a refettorio, dove egli restò meravigliato sia dello splendido servizio sia della raffinata musica vocale e strumentale che veniva eseguita per suo trattenimento. Facendo il giro delle magnifiche costruzioni, ammirò il tesoro della sacrestia, soprattutto un enorme ostensorio, del valore di 60.000 fiorini, le 14 campane della torre, le collezioni uniche della biblioteca: il bibliotecario conosceva bene sette lingue. Egli lodava la perfezione esattissima con cui veniva eseguito il canto gregoriano e il servizio liturgico, il cerimoniale della solenne messa conventuale con parata militare; ma egli restò impressionato soprattutto dal raccoglimento e dalla disciplina dei monaci. “Qui” scriveva P. Bartholomew “mentre constavo una disciplina regolare tanto precisa, ebbi l’impressione di vedere Clairvaux al tempo del nostro padre san Bernardo, con grande gioia del mio cuore. Ci sono 70 monaci in monastero, eppure, anche se siamo passati diverse volte nei chiostri, non abbiamo incontrato mai un solo monaco. Questo non avvenne per pura casualità: i monaci sono profondamente assorti nei loro studi e l’abitudine alla solitudine è inveterata, quasi parte della loro stessa natura. Sebbene il monastero sia ricco, è sorprendente rilevare la povertà dei monaci. La stoffa dei loro abiti è povera; non portano indumenti di lino ma solo indumenti intimi di lana. Nella disciplina monastica seguono alla lettera la riforma delle costituzioni stabilita da Alessandro VII”.

L’influenza dell’Illuminismo sui monasteri della Germania fu breve e superficiale, e si esercitò solo su alcuni singoli monaci. La famosa abbazia bavarese di Kaisheim fornisce un esempio caratteristico. Qui, durante gli anni attorno al 1770, la generazione dei giovani sacerdoti risentì l’influenza di un importante professore, Ulrich Mayr, laureato all’Università di Ingolstadt e discepolo entusiasta della filosofia illuminista. “Sono felice di essere monaco” scriveva a un amico, “perché io credo che tale professione mi impegna a servire gli ideali della filosofia cristiana. E un uomo che vive nella solitudine e nel silenzio, lontano dagli impegni familiari, circondato da amici colti, è sempre un filantropo, ricco di virtù; quanto potrebbe contribuire alla felicità di tutti!” Egli accolse con gioia la soppressione della Compagnia di Gesù ed anche le misure dell’imperatore Giuseppe contro le comunità contemplative, mentre faceva del suo meglio per conformare il suo monastero ai modelli tipici dell’Illuminismo. Tuttavia, l’opposizione della maggioranza della comunità crebbe sempre di più e nel 1785 lasciò Kaisheim, totalmente sconcertato, passando a una parrocchia di campagna. La reazione dei conservatori contro l’Illuminismo fu altrettanto forte fra tutti i Cistercensi della Baviera; nei circoli illuministi di Würzburg, essi erano conosciuti come “i gesuiti bianchi”.

In un panorama della storia dell’Ordine, per ovvie ragioni, bisogna riservare alla Francia un’attenzione particolare. In primo luogo, metà delle abbazie cistercensi che erano sopravvissute alla Riforma, si trovavano all’interno dei confini della Francia. E, in secondo luogo, gli organi dell’amministrazione centrale, il Capitolo generale e l’abate generale, continuavano a risiedere a Cîteaux. Ma sotto altri aspetti i Cistercensi francesi si differenziavano dai loro confratelli degli altri paesi europei. Si è già discusso del sorgere della Stretta Osservanza come di una istituzione prevalentemente francese. La persistenza della commenda era un’altra caratteristica della vita monastica in Francia, ed essa aveva ridotto in grande misura i benefici risultati di un generale rinnovamento religioso che altrove aveva dato così grandi frutti. Gli effetti negativi della contesa incessante che divideva l’abate generale dai quattro primi padri, insieme a una sempre crescente interferenza del governo nell’amministrazione e nella legislazione dell’Ordine si risentivano in Francia più di quanto non si avvertissero altrove. E, infine, i segni della penetrazione dell’Illuminismo erano estremamente evidenti e scalzavano la posizione sociale degli ordini contemplativi preparando così l’opinione pubblica agli eventi della Rivoluzione Francese.

Perfino la Stretta Osservanza non riuscì ad eliminare le pretese e le esazioni fiscali degli abati commendatari. Un compromesso a cui si giunse alla fine, consisteva nel rendere di competenza del priore conventuale la disciplina e l’amministrazione interna del monastero, mentre la gestione dei beni della abbazia era diritto dell’abate commendatario. Il problema cruciale rimase pur sempre quello della suddivisione delle entrate della comunità. L’usanza legale sancita agli inizi del XVII secolo da un certo numero di decreti di corte, stabilì la suddivisione delle entrate nette in tre parti. La prima (mensa abbatialis) veniva data all’abate; la seconda (mensa conventualis) era destinata alle necessità di cibo o vestiario (di un certo numero di monaci). Questo ammontare, diviso tra i monaci, era spesso chiamato pensione. La terza parte era riservata per le spese di manutenzione, compresa la riparazione degli edifici. I termini della suddivisione erano concordati in base a un contratto formale. Ma spesso l’abate rifiutava di stabilire qualsiasi tipo di relazione contrattuale o di rispettarne i termini. In ogni caso, egli continuava a estorcere dai beni dell’abbazia quanto più denaro poteva, trascurando completamente le necessità più elementari dei monaci. Litigi interminabili su tanti di questi problemi riempiono innumerevoli pagine dei documenti dei monasteri.

Una delle prime, delle più pesanti e più appariscenti conseguenze della commenda fu la riduzione del numero dei monaci. Agli occhi delle Personalità nominate dal re, che ricevevano le loro abbazie come – una ricompensa materiale in cambio di vari servigi, la presenza dei monaci aveva sempre costituito soltanto un gravoso peso finanziario. Essi facevano quanto potevano per ridurre al minimo indispensabile il numero di monaci; se l’abbazia cadeva vittima della guerra o di qualche altra calamità, essi rifiutavano di ricostruirne le rovine e di ripristinarne le comunità. Nel migliore dei casi, quando un contratto specificava le obbligazioni finanziarie dell’abate, il numero dei monaci e la loro pensione era fissata nei termini più bassi possibili, senza lasciare nessuna speranza di poter accrescerne il numero o migliorarne le condizioni economiche. La diminuzione del numero e il fissare il personale a un livello molto ridotto non derivava per nulla da una diffusa carenza di vocazioni, ma da limitazioni artificiali e negative, non controllabili dall’Ordine.

Quando il numero dei monaci era già stato fissato dai contratti, molti abati commendatari concentravano i loro sforzi per costringere ad ammettere i loro “protetti” nei posti rimasti vuoti. Se il candidato si dimostrava non idoneo per l’Ordine, si accendevano altre querele e gli abati commendatari reagivano bloccando l’ammissione di qualsiasi novizio.

Nelle comunità dove le pensioni erano troppo ridotte, gli stessi monaci sentivano fortemente la tentazione di mantenere basso il numero della comunità e di fare tutto il possibile per non ammettere altri ai posti vacanti.

In molte case, la presenza di un solo monaco era una pura e semplice formalità; un numero ancora più grande di monasteri venne lasciato completamente vuoto, o venne perso dall’Ordine per le ragioni più diverse. Quando il Capitolo generale del 1667 preparò l’organizzazione di un piano di visite regolari a tutte le case della Francia, la lista dei monasteri sia della Stretta che della Comune Osservanza rivelò l’esistenza di solo 149 comunità, il che significava che circa 50 case erano, effettivamente, vuote. Verso il 1683 il numero dei monasteri che doveva ricevere la visita regolare era salito a 164, ma probabilmente la causa è da ricercarsi nella estensione territoriale della Francia.

Per amore di giustizia, bisogna sottolineare che la maggior parte degli abati commendatari alla fine venne costretta a contribuire con una parte delle proprie entrate alla ricostruzione degli edifici monastici, mentre la ripresa a livello morale veniva promossa concretamente da vari interventi dell’Ordine. Nel 1600, un monastero con una comunità regolare e disciplinata, con una proprietà ben amministrata ed edifici in buono stato era una vera eccezione; verso il 1700 la maggioranza delle case Cistercensi che sussistevano ancora possedevano almeno gli elementi essenziali per una vita religiosa ordinata e i casi di totale negligenza o di disordine erano diventati rari.

Là dove si era verificata la ricostruzione materiale e assicurato il mantenimento di una comunità numerosa, la ripresa a livello morale e spirituale seguiva spontaneamente. Al contrario, là dove lo zelo e la disciplina mancavano in maniera cronica, la comunità era in genere piccola e la povertà deprimente. Poiché il controllo sui fattori economici più importanti, nella maggior parte dei casi, oltrepassava i poteri e le facoltà dell’Ordine, l’uniformità rimaneva un pio desiderio. All’ombra di splendide abbazie abitate da monaci esemplari, c’erano delle piccole case che si dibattevano per sopravvivere, osteggiate da difficoltà insuperabili.

In circa un terzo dei monasteri francesi, un fattore considerevole nel processo di ripresa era costituito certamente dall’appartenenza alla Stretta Osservanza. Il movimento tuttavia conseguiva un successo per così dire spettacolare, nei casi in cui l’introduzione della riforma si accompagnava al ritorno dell’abate regolare, o là dove si svolgeva con il pieno appoggio dell’abate commendatario. Il semplice fatto della integrazione alla Stretta Osservanza di rado comportava come effetto sensibili miglioramenti. Da un lato è possibile che un monastero medio della Stretta Osservanza si trovasse a un livello economico e morale più alto di una abbazia media della Comune Osservanza; bisogna considerare tuttavia anche la percentuale più alta delle abbazie regolari che appartenevano alla Stretta Osservanza. Quando raggiungeva il culmine della propria espansione, la Stretta Osservanza comprendeva circa un terzo delle comunità sussistenti tra i monasteri cistercensi francesi; ma annoverava metà delle abbazie regolari.

Il lavoro di restaurazione all’interno della Comune Osservanza venne guidato dal Capitolo generale e promosso da ferventi visitatori regolari; però, in ultima istanza, il merito del successo dovrebbe essere attribuito principalmente alla costituzione apostolica di Alessandro VII, In suprema, del 1666. Fu in base a questo documento che, verso la fine del secolo, un livello ragionevole di vita regolare venne raggiunto quasi dappertutto.

Quanto ai problemi del governo centrale, la ricorrenza delle contese tra gli abati di Cîteaux e i quattro primi-padri costituisce indubbiamente il problema-chiave per tutto il resto dell’Ancien Régime. Quando, dopo decenni di amare controversie, si costrinse la Stretta Osservanza alla sottomissione, i quattro primi-padri si apprestavano a riesumare la loro opposizione a Cîteaux, solo per rendersi conto che il governo di Luigi XIV nutriva poca simpatia per loro. Il regime assoluto non poteva appoggiare dei membri di un ordine che si ribellavano contro l’autorità costituita: nel caso di Cîteaux, questo comportava una reale influenza della Francia su delle possenti congregazioni straniere. Fu così che l’abate generale Jean Petit (1670-1692) affermatosi sia sulla Stretta Osservanza che sui suoi quattro concorrenti, fu colui che più da vicino giunse a stabilire sull’Ordine Cistercense un controllo di tipo monarchico.

I successori di Petit cercarono di conservare la stessa posizione di rilievo alla guida dell’Ordine. Ben consapevoli che il Capitolo generale e il definitorium costituivano gli unici luoghi di dibattito pubblico dove i primi padri, umiliati, avrebbero potuto dare libero corso alle loro lagnanze, gli abati di Cîteaux divennero sempre più riluttanti a convocare il Capitolo, nonostante che la costituzione In suprema richiedesse delle sessioni almeno triennali. Nicola Larcher (1692-1712) tenne una sola di queste assemblee nel 1699. Con Edmond Perrot (1712-1727) non si tenne nemmeno un Capitolo generale. Perrot si appoggiava, completamente, come i suoi predecessori, ai suoi colleghi di Germania nella lotta contro l’antico dragone a quattro teste”. Il portavoce tedesco, Stefano Jung (1698-1725), abate di Salem, rese nota un’espressione classica della resistenza, riprendendo gli argomenti della generazione precedente. Alludendo al detto popolare francese “una sola fede, una sola legge, un solo re” (une foi, une loi, un roi) egli scrisse a Luigi XV “Così come noi non abbiamo che un solo Dio e una sola fede, così il nostro Ordine non ha che una sola testa” e aggiunse una vecchia minaccia “se nel prossimo futuro non si trovasse nessun altro rimedio, noi tedeschi siamo propensi ad eleggere per la Germania un abate generale speciale: ma questa decisione pregiudicherebbe gravemente la posizione del Regno di Francia”.

Le pressioni crescenti forzarono Andoche Pernot (1727-1748) a convocare un Capitolo nel 1738, ma le manipolazioni scaltre con cui egli si assicurava l’appoggio dell’assemblea con le sue politiche non fece che aumentare ancora l’ostilità dei proto-abati e intensificare la loro decisione di vendicarsi alla prima occasione.

Nel frattempo, il cambiamento del clima socio-politico del XVIII secolo cominciò lentamente a favorire i proto-abati. Durante la prima metà del XVIII secolo alcuni membri della nobiltà francese, che dal Re Sole erano stati ridotti al ruolo insignificante di personaggi di corte, riuscirono a realizzare una considerevole ripresa. Essi cercarono di conseguire una più ampia partecipazione al potere politico dell’Ordine e rivendicavano gli antichi privilegi. Contemporaneamente, un movimento filosofico a risonanze politiche popolari si andava affermando, denunciando i governi assoluti e, lanciando oltre la Manica occhiate invidiose, richiedeva una amministrazione più rappresentativa con appropriate forme di controllo e di revisione dei conti.

La nobiltà riusciva a ristabilire, come manifestazione visibile di queste aspirazioni, il proprio monopolio sulle sedi episcopali e cercava di costringere gli ordini monastici esenti di sottomettersi alla giurisdizione diocesana. Per secoli l’esenzione aveva costituito un privilegio, oggetto di molte critiche; ma verso il XVIII secolo quasi tutti gli abati appartenevano alla borghesia, ricca, influente e in via di rapida affermazione; questo fatto aggiungeva all’antagonismo cronico che opponeva abati e vescovi, l’aspetto di una guerra di classe. In sostanza, il contenuto della maggior parte degli attacchi contro il potere dell’abate generale potrebbe a buon titolo essere classificato come futile e banale; ma il desiderio evidente che soggiaceva a tutti i tentativi di far ritornare al proprio posto nella scala sociale la pretenziosa autorità plebea dell’Ordine rendeva ogni urto occasione di scontro a livello di principi.

Durante queste contese, che si protraevano per interi decenni, i proto-abati combattevano con Cîteaux una continua battaglia sulla ripresa e la gestione del Collegio san Bernardo di Tolosa. Larcher e i suoi due successori immediati fecero dei ripetuti sforzi per infondere nuova vita in questa istituzione decadente ed esercitarono delle pressioni sulle vicine abbazie cistercensi perché appoggiassero il collegio sia a livello morale che a livello economico. Ma, nel frattempo, i proto-abati non cessavano di affermare che il reale motivo nascosto nel progetto era l’insaziabile fame di potere dell’abate generale e il suo sfruttamento egoistico dei monasteri.

Il Capitolo generale del 1738 arrecò all’abate Pernot solo una vittoria di Pirro perché i suoi colleghi, sconfitti, ne uscirono più decisi che mai a porre rimedio ai torti subiti. Il nuovo abate di Cîteaux, François Trouvé, nel 1748, non apportò una riconciliazione. Il nuovo abate generale, nato nella Champagne, di origine borghese, aveva 37 anni, era perciò abbastanza giovane, dottore alla Sorbona e priore all’abbazia della Clarté-Dìeu, un piccolo monastero della diocesi di Tours. Nella sua personalità, un modo di fare estremamente educato e una buona cultura andavano insieme a un senso acuto della propria dignità e a una decisione ferma di difendere, se non di intensificare, la propria posizione di guida. La nuova contesa raggiunse il culmine nella procedura di corte che venne inoltrata davanti al Gran Consiglio dai quattro proto-abati il 12 Marzo 1760. Nei mesi seguenti una marea di opuscoli e di saggi, pubblicati da entrambe le parti, cercò di influenzare tanto i giudici quanto l’opinione pubblica. I proto-abati affermavano che nel corso degli ultimi 40 anni aveva avuto luogo una vera e propria rivoluzione, escogitata dagli abati di Cîteaux “per ricoprire ogni cosa con l’oceano del loro potere opprimente”.

Essi non ricorrevano più ai Capitoli generali e così, in via di fatto, essi stavano modificando la forma di governo dell’Ordine facendolo passare da una forma aristocratica, fondata sulla legge, a una monarchica, dove tutto giaceva nelle mani dell’abate di Cîteaux”. Trouvè ribatteva che egli aveva cercato più volte di programmare la convocazione del Capitolo, ma che ogni volta ne era stato impedito o da circostanze avverse o era stato ostacolato dalla riluttanza dei proto-abati. Anzi, aggiungeva l’abate generale, il governo dell’Ordine non può dipendere da un “senato” di aristocratici, che si raduna solo sporadicamente. Un’assemblea di quel tipo, perché potesse offrire all’abate di Cîteaux un’assistenza significativa, avrebbe dovuto essere, almeno potenzialmente, costantemente convocata e in atto..

Il 14 Marzo 1761 il Gran Consiglio rese nota la decisione tanto attesa, che era ampiamente in favore dei proto-abati. Essa invalidava un certo numero di decreti che erano stati approvati nel Capitolo del 1738, insieme a molte altre nomine successive, o misure amministrative prese più recentemente da Trouvè. Lo stesso documento (denominato arrêt) sottolineava che le disposizioni di quel tipo dovevano essere decise dietro consultazione dei proto-abati, riuniti in Capitolo. Immediatamente Trouvè fece appello contro il verdetto, rivolgendosi direttamente al Re, ma era ovvio che la convocazione del Capitolo generale non poteva essere differita oltre. In queste particolari circostanze, un Capitolo offriva dei vantaggi più grandi ai proto-abati che a Cîteaux.

Dopo lunghi preparativi, il Capitolo generale si apri il 5 Maggio 1765, alla presenza del sovraintendente della Borgogna, Antoine-Jean Amelot de Chaillou, che rappresentava il governo. Parteciparono alla sessione circa 60 membri con diritto di voto, quasi ugualmente suddivisi tra le due fazioni. La maggior parte degli abati francesi appoggiava i proto-abati, mentre gli altri, e soprattutto i tedeschi, si allinearono solidamente con l’abate generale.

Prima che si potesse discutere qualsiasi altra cosa più importante, emerse dì nuovo il problema della composizione e dell’autorità del definitorio. Dato che i proto-abati lo potevano facilmente controllare, Trouvè insisteva sulla preminenza della sessione plenaria del Capitolo. Dopo alcuni giorni di inutili e roventi discussioni, il Capitolo generale si scioglieva nel disordine, in modo abbastanza simile a quanto era successo nel 1672.

Tutte e due le fazioni si rivolsero al Parlamento di Digione per avere giustizia. Quando a Digione, sotto la pressione dei tedeschi, furono decisi in favore di Trouvé i punti sottoposti a discussione, i proto-abati fecero ricorso al consiglio del Re. Ma in questa circostanza, 1766, una Commissione di Regolari venne costituita sotto gli auspici del re, ed essa era guidata da Etienne-Charles de Loménie de Brienne, arcivescovo di Tolosa. Da allora in poi tutti i problemi rimasti in sospeso dovevano essere risolti grazie alla mediazione di quella istituzione composta da ecclesiastici e da ufficiali dello stato.

Lo scopo con cui fu costituita inizialmente la Commissione era la riforma degli Ordini religiosi; ma il fine specifico e gli strumenti di realizzazione vennero precisati a poco a poco solo più avanti, in una serie di decreti del Re. Questi regolamenti specificavano molto dettagliatamente l’età e le altre qualifiche dei candidati, l’organizzazione dei noviziati e molte altre questioni disciplinari e amministrative. I punti più significativi della riforma consistevano nella richiesta della revisione e della rielaborazione delle costituzioni degli ordini monastici e nella determinazione di un numero minimo per ogni monastero. Ovviamente, quest’ultimo requisito poteva essere raggiunto solo riducendo il numero delle comunità più piccole; inoltre, nell’eventualità che anche misure così drastiche non riuscissero a portare il miglioramento che si desiderava, era prevista addirittura la secolarizzazione di ordini interi. Infatti, durante il mandato della Commissione, più di 450 case religiose vennero chiuse e 9 interi ordini ridotti allo stato laicale.

Le affermazioni costanti e solenni che l’unica intenzione della Commissione era quella di promuovere una sana riforma e così il bene della Chiesa, non riuscivano a far tacere le critiche e a disarmare l’opposizione attiva. Il fatto che i più rumorosi sostenitori della riforma risultavano essere quegli stessi personaggi che avevano progettato l’espulsione dei Gesuiti, rafforzò il sospetto di coloro che erano fermamente convinti che la nuova organizzazione altro non era che uno strumento per la distruzione dei monachesimo. Disgraziatamente, il carattere e la personalità di Loménie de Brienne potevano a mala pena garantire la realizzazione equa delle pretese finalità della Commissione. Nella sua vita privata di religioso lasciava tanto a desiderare che talvolta si discuteva se egli davvero credesse nell’esistenza di Dio.

La Commissione cercò con notevole flessibilità di far fronte ai problemi di ogni ordine. Nel caso dell’Ordine Cistercense la tattica della Commissione fu particolarmente raffinata. Brienne cercò di trarre profitto, semplicemente, dalla contesa che in quel momento ricorreva tra le parti antagoniste: Cîteaux e i proto-abati. Si ammetteva comunemente che una soluzione poteva essere realizzata in pratica, grazie alla revisione delle costituzioni dell’Ordine. Nel senso più rigoroso del termine, non esistevano costituzioni aggiornate. Il documento che più si avvicinava era il breve papale In suprema del 1666, di Alessandro VII: ma anche questo testo, per quanto fosse esteso nella sua concezione, si riduceva principalmente al problema delle osservanze. Una raccolta sistematica dei testi legislativi era sempre stata programmata, ma mai portata a termine. Così, la finalità principale che si proponeva la Commissione, cioè la riforma a livello costituzionale, doveva essere portata a termine non attraverso costrizioni dall’esterno, ma con la piena collaborazione di entrambe le parti, e guidando semplicemente l’attività del Capitolo generale nella direzione voluta. L’Ordine non doveva sentirsi sollecitato ad accondiscendere a richieste isolate, dato che i diversi e singoli punti della riforma dovevano essere facilmente integrati nelle nuove costituzioni. Anche la soppressione delle comunità più piccole venne rimandata fino alla ratifica delle nuove costituzioni.

Il Capitolo generale dei 1768 venne consacrato interamente alle premesse per la riforma delle costituzioni. Fra i 45 membri che godevano il diritto di voto, il partito dell’abate generale costituiva chiaramente la maggioranza. La sessione era dominata da due commissari del re, il già menzionato Amelot de Chaillou e Jean-Armand de Roquelaure, Vescovo di Senlis: entrambi si muovevano secondo le istruzioni che avevano ricevuto da Brienne. L’intenzione di Brienne era la democratizzazione del governo dell’Ordine tramite la concessione di una più grande influenza ai proto-abati; quindi il partito di Trouvé era destinato a non avere la meglio.

La sessione si aprì il 2 Maggio: si fece circolare un questionario di domande preparate dalla Commissione dei Regolari e che trattava del governo dell’Ordine. Evidentemente, Brienne aveva già dato in anticipo una vasta serie di risposte, ma i risultati dei questionario rivelarono solo due serie di risposte che si dividevano rigorosamente in due direzioni: 31 erano in favore della posizione dell’abate generale, 23 per quella dei proto-abati. Dato che non si riuscì ad arrivare ad un compromesso nei cinque giorni seguenti, in cui si accesero animate discussioni, la stesura di un testo preliminare fu affidata a una commissione di abati, che rappresentava entrambe le parti.

Il comitato, come ben si poteva prevedere, dopo tre anni di lavoro, non riuscì ad appianare le differenze e come risultato dei lavori vennero alla luce non una ma due proposte di costituzioni. La discussione dei due testi in conflitto e una decisione a proposito di quell’argomento complesso, se era possibile, costituiva il compito del Capitolo generale del 1771, che si tenne dal 2 settembre al 2 ottobre; la sessione più lunga mai realizzata. Sui 64 membri partecipanti al Capitolo e aventi diritto al voto, il partito dell’abate generale aveva nuovamente una posizione preminente, grazie alla presenza di 23 abati stranieri. Nonostante l’intervento assiduo di Roquelaure, il risultato inevitabile fu l’approvazione delle costituzioni che rispecchiavano il punto di vista di Trouvè, e quindi dei tutto inaccettabili per Brienne.

Il passo successivo fu la nomina di un sotto-comitato, composto da quattro membri della Commissione dei Regolari, i quali avevano l’incarico di stendere un testo di compromesso un po’ ambiguo, che doveva essere accettabile dalle parti in causa. Il compito era pressoché impossibile e, di fatto, i problemi-chiave restarono in sospeso per più di dieci anni.

La rottura del circolo vizioso venne con gli eventi tragici in Germania che scossero l’impero e che isolarono Trouvé dai suoi fedeli sostenitori tedeschi e diedero al partito dei proto-abati una posizione vantaggiosa e decisiva. Mentre la campagna che in Francia aveva attaccato i monaci si andava gradualmente spegnendo, il governo dell’impero germanico lanciava un attacco devastatore contro le abbazie potenti e ricche che dipendevano dalla sua influenza. I beni materiali degli inutili monasteri costituivano una tentazione allettante per i despoti illuminati, a cui essi non seppero resistere. Mantenere dei rapporti epistolari con dei superiori stranieri, mandare fondi all’estero, partecipare a Capitoli oltre confine era stato sempre più difficile anche durante gli ultimi anni del governo della religiosissima Maria Teresa; suo figlio e successore Giuseppe Il diede il colpo mortale. Un decreto imperiale del 12 gennaio 1782 scioglieva tutte le istituzioni monastiche che non avevano a loro carico un servizio diretto, di interesse pubblico. Negli anni seguenti quasi tutte le abbazie cistercensi che sorgevano nelle terre degli Asburgo vennero secolarizzate. Le poche che riuscirono a sopravvivere erano paralizzate da un panico costante. In una tale atmosfera i problemi sollevati dalle nuove costituzioni o dalla vittoria di Trouvè sui suoi oppositori divennero di colpo irrilevanti. Le ultime due sessioni del Capitolo generale, prima della Rivoluzione francese, videro la partecipazione quasi esclusiva di abati francesi. Eppure essi diedero prova di una sorprendente vitalità, ma si affaticavano sotto le oscure nubi di un destino ormai incombente.

Con il mutare delle circostanze, l’opposizione dei potenti abati stranieri poteva essere tranquillamente ignorata; il sotto-comitato compose il testo tanto atteso delle nuove costituzioni, decidendo tutti i punti in sospeso in favore dei proto-abati. Il nuovo documento trattava solo degli organi legislativi e amministrativi dell’Ordine e rimandava a più tardi i problemi di disciplina e di liturgia. La bozza delle costituzioni comprendeva i seguenti provvedimenti fondamentali: i futuri Capitoli generali dovevano essere convocati ogni tre anni e dovevano avere inizio ogni volta alla stessa data: il Lunedì della Quarta Settimana dopo Pasqua. L’abate generale doveva promulgare la sua convocazione (indictio) almeno tre mesi prima che sì aprisse la sessione. Nel caso contrario tutte le persone che avevano diritto di partecipare erano autorizzate ad andare direttamente a Cîteaux, anche senza invito. Se si riscontrava che l’abate generale non era in grado di presiedere ai lavori, il suo compito era assunto dall’abate più anziano tra i presenti. Gli abati titolari (o nominali = in partibus) erano espressamente eliminati: si proibiva loro una partecipazione attiva. Per la formazione del definitorio si permetteva all’abate generale di eliminare solo uno dei cinque abati presentati da ciascuno dei quattro proto-abati. Ogni problema che non avesse ricevuto un voto unanime in sede di Capitolo doveva essere demandato al definitorio. Il Capitolo generale godeva solo di un debole diritto di veto sulle decisioni di quest’organo intermedio; ma anche tale opposizione poteva essere annullata dai definitori. Negli anni che seguirono immediatamente il Capitolo generale, dovevano essere tenuti dei Capitoli intermedi con la partecipazione dell’abate generale, dei proto-abati, dei presidi delle congregazioni e di due procuratori generali. Tuttavia, quest’organo poteva approvare solo delle norme di emergenza che dovevano essere sottoposte all’approvazione o all’abrogazione del successivo Capitolo generale. Si concedeva all’abate generale una giurisdizione diretta solo sulle case della filiazione di Cîteaux; ogni proto-abate godeva della stessa autorità sulle case della propria filiazione, senza l’intervento dell’abate generale. Tale autorità comprendeva non solo il diritto di visita ma anche quello di nominare i priori e gli altri ufficiali nelle case in commenda. Lo stesso documento stabiliva che il numero minimo della comunità di ogni monastero doveva comprendere almeno nove monaci, incluso il superiore locale. Per quanto riguardava l’amministrazione dei beni dell’abbazia, la vendita della proprietà, le tasse ed altri contributi finanziari, prestiti ed altri punti di amministrazione fiscale, diversi uffici dei governo del re dovevano godere dell’autorità di controllo e talora di veto.

Il testo delle costituzioni venne presentato al Capitolo generale del 1783, presieduto da cinque commissari del re. 138 partecipanti dei quali solo 4 erano abati tedeschi, non avevano altra scelta se non quella di accettare il testo proposto, pur facendo tutto il possibile per suggerire un certo numero di modifiche. L’abate generale e i suoi fedeli sostenitori espressero il loro disappunto con una resistenza passiva.

Dopo numerose piccole correzioni finali, il Capitolo del 1786 approvò un testo definitivo. Il valore giuridico delle nuove costituzioni dipendeva ovviamente dalla ratifica del re e del papa, ma quel documento importante della storia cistercense non ricevette mai l’approvazione né dell’una né dell’altra autorità. Il governo del Re di Francia su cui pendeva un destino fatale, non aveva più né il tempo né la voglia di dedicarsi a problemi di quel genere.

Ma quelle costituzioni erano davvero un testo giuridico pratico e realizzabile? Il testo non fu mai sperimentato. La valutazione finale delle qualità di quel testo resterà sempre problematica; il fatto che riuscì a varcare la soglia della promulgazione solo in coincidenza con l’estinzione quasi totale dell’Ordine nella tempesta della Rivoluzione, fu certamente una tragica ironia del destino.

Le pressioni esercitate per una riforma a livello di costituzioni non fu affatto l’unica espressione dell’autorità della Commissione dei Regolari. La ricerca di dati evidenti per appoggiare il progetto di riforma generale di tutti gli ordini religiosi richiedeva la raccolta di statistiche e di informazioni sicure sulle condizioni di tutte le istituzioni di vita consacrata disseminate nel paese. Sulla base di questa considerevole fonte di materiale, lo storico può tracciare un quadro panoramico dell’Ordine Cistercense in Francia alla vigilia della Rivoluzione Francese.

Entro i confini politici della Francia, appena prima dell’inizio della Rivoluzione, c’erano in tutto 237 monasteri cistercensi, compresi 9 priorati titolari e 3 collegi. Solo 35 erano governati da abati cistercensi regolari, e tutti gli altri sottoposti a commenda.

Determinare il numero del personale è molto più difficile. I dati a questo proposito, per quanto abbondanti, si dimostrano infondati. Il totale più verosimile dovrebbe essere tra i 1800 e i 1900 monaci; questo dà, come media, 8 monaci per ogni casa. Queste cifre rimangono notevolmente costanti per tutto il XVIII secolo, e non dimostrano variazioni neppure nei registri dell’autorità della Rivoluzione, nel 1790. In molti casi, le singole comunità erano troppo piccole perché vi si conducesse una vita monastica significativa. Ma la ragione fondamentale per questa situazione certamente deplorevole, non consisteva, comunque, nella carenza di vocazioni, ma nella diminuzione delle entrate, che rendevano impossibile mantenere comunità più numerose.

Il valore delle terre e dei beni era certamente considerevole per le abbazie cistercensi, ma, contrariamente a quello che veniva pubblicizzato dalla più tarda propaganda della Rivoluzione, le entrate erano nella maggioranza dei casi modeste. Clairvaux era di gran lunga la comunità più ricca, perché contava su un reddito annuo di 100.000 libbre. Ma Clairvaux era anche la comunità più numerosa, perché aveva da 50 a 60 monaci professi a cui garantire nutrimento e abiti. È probabile che la maggior parte delle comunità abbiano imparato a vivere in modo proporzionato ai mezzi di cui disponevano, perché i documenti non parlano di debiti esorbitanti.

Sempre secondo gli stessi documenti, quasi tutte le abbazie si trovavano in buone condizioni, quanto ad edifici: molte di esse erano state ricostruite o rimodellate durante il XVIII secolo. Tuttavia, la magnificenza del Barocco dei monasteri della Germania aveva molto pochi imitatori in Francia. La bancarotta di Châlis, venuta come conseguenza di un progetto di costruzione troppo ambizioso, agli inizi del secolo, aveva probabilmente fatto scuola. I vasti edifici con cui erano stati ampliati Cîteaux e Clairvaux, anche se monumentali, erano austeri al confronto di quelli delle abbazie di Ebrach o di Fürstenfeld.

La Commissione dei Regolari aveva incoraggiato tutti i Vescovi francesi a stendere dei rapporti sulle condizioni morali delle abbazie che appartenevano alla loro diocesi, ma pochi sono i commenti degni di nota. Solo 67 abbazie cistercensi furono oggetto dell’attenzione dei loro vescovi, e di queste, 32 ricevevano grandi elogi; molte altre venivano qualificate come “inutili”. Solo 17 erano biasimate a causa di presunti scandali o irregolarità, ma 10 di questi casi si trovano in due sole diocesi, i cui vescovi erano notoriamente nemici dei monaci.

Sebbene la grande quantità di materiale di archivio si presti a diverse interpretazioni, resta vero che gli ordini monastici risultavano impopolari a gran parte della gerarchia ed erano divenuti oggetto delle critiche dello stesso gruppo di intellettuali illuminati che avevano portato alla soppressione dei Gesuiti. Sembra che le accuse di decadenza mirassero soltanto a giustificare aggressività e inimicizia, dato che il bersaglio cui tendevano non erano gli abusi, ma l’esistenza stessa della vita monastica. A giudizio dei critici illuminati quella istituzione di stampo medioevale era semplicemente inadatta a una società che doveva completamente essere ristrutturata. Essi avevano certamente ragione nel segnalare che molte comunità religiose non vivevano più secondo il loro antico ideale, ma gli stessi accusatori non si rendevano conto che la loro società non offriva quell’ambiente pieno dì simpatia e così congeniale alla vita monastica, quale era stato il XII secolo. Nessuna organizzazione religiosa poteva mantenere a lungo andare delle forme di vita che erano state già molto rifiutate dalla società contemporanea. Gli impazienti costruttori di un mondo nuovo guardavano anche alle case ben disciplinate come a inutili reliquie del passato, che vivevano in condizioni di ristagno senza speranza di risveglio, oscurantiste, punti d’arresto sulla via del progresso, e destinate quindi ad essere rimosse.

La maggior parte delle case francesi alla fine del XVIII secolo non erano corrotte dall’interno a causa della decadenza morale, ma non erano riuscite ad adattarsi ai tempi nuovi, ai nuovi ideali di un mondo in rapida evoluzione. Gli autori moderni che descrivono la vita monastica prima della Rivoluzione come una istituzione che progressivamente si inclinava verso la decadenza hanno la stessa impressione di un passeggero che siede in una carrozza di un treno rapido in corsa e che guarda i pali del telegrafo che cadono dietro alle sue spalle.

Bibliografia

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L.J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, I, Certosa di Pavia, 1989.

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