I Cistercensi

Storia dell’Ordine cistercense

Al limite dell’estinzione

Verso la metà del XVIII secolo gli ordini religiosi si trovavano in una situazione ambigua. Se da una parte godevano ancora dell’appoggio delle masse legate alla tradizione e fondamentalmente religiose, dall’altra erano oggetto di critiche radicali degli intellettuali illuminati, che vagliavano ogni istituzione del passato alla luce della sua utilità sociale. Fintanto che la propaganda anti-religiosa si limitava all’élite degli eruditi, gli ordini monastici non si trovavano in un pericolo immediato. Ma la minaccia divenne estremamente reale allorché i despoti illuminati, tra cui Giuseppe II, si schierarono contro la vita monastica.

Le autorità degli ordini contemplativi, tra cui i Cistercensi, si allarmarono e cercarono di assicurare la sopravvivenza delle loro organizzazioni impegnando i monaci in attività che avessero una portata sociale dimostrabile. L’espressione più naturale di tale orientamento fu aumentare l’impegno pastorale, che venne assunto da un gran numero di abbazie cistercensi. Le abbazie che invece avevano dei monaci sufficientemente preparati si interessarono sempre di più all’insegnamento, che a lungo era stato considerato campo legittimo di attività monastica.

Tra le iniziative promosse a livello educativo, nel XVIII secolo, la prima, e forse la più riuscita fu quella della scuola, aperta nell’abbazia sveva di Rauden, dietro l’ispirazione del governo illuminato di Federico II. Nel 1743, durante la guerra di successione in Austria, quando la provincia venne tagliata fuori da tutti gli altri centri culturali, l’abbazia aprì una scuola di Latino, che presto si sviluppò in una istituzione per l’insegnamento secondario (ginnasio) su larga scala. Il numero degli studenti, prevalentemente collegiali interni, crebbe rapidamente e verso il 1788 il monastero ospitava 243 studenti. L’insegnamento era gratuito; per la pensione si chiedeva una tassa minima. La scuola godeva di una vasta reputazione in tutto il paese e sopravvisse alla soppressione dell’abbazia nel 1810. Durante i 67 anni in cui questa scuola venne gestita dall’abbazia cistercense, si diplomarono 2.000 studenti, dei quali un quarto divennero sacerdoti.

La soppressione della Compagnia di Gesù, nel 1773, ebbe come conseguenza l’abbandono di innumerevoli istituti educativi. La crisi diede a un certo numero di comunità cistercensi, disposte a restare sulla breccia, una occasione propizia perché venissero salvati numerosi ginnasi. Fu il caso dell’abbazia bavarese di Gotteszell, dove, poco dopo il 1773, i monaci assunsero la direzione della scuola di Burghausen, già appartenuta ai Gesuiti. Delle circostanze analoghe persuasero i monaci ungheresi di Paszto ad accettare il ginnasio dei Gesuiti di Eger, nel 1776. Il loro esempio venne seguito da altre abbazie del paese, e la reputazione di un ordine di insegnamento si radicò profondamente.

Il Capitolo generale di Cîteaux, dietro le sollecitazioni della Commissione dei Regolari, aderì a schemi concreti diretti a dimostrare l’utilità dell’Ordine. Fu, comunque, durante il Capitolo generale del 1786 che emerse un progetto considerevole, con un triplice obiettivo, basato sostanzialmente sulla riorganizzazione del Collegio san Bernardo di Parigi. Bisognava ampliare sia il curriculum che il personale insegnante così come la comunità degli studenti di quella istituzione; la minaccia di soppressione delle case troppo piccole doveva essere allontanata, trasferendo le loro entrate al collegio; inoltre, per dare prova dell’utilità sociale dell’Ordine, era necessario istituire delle scuole-convitto gratuite, i cui professori dovevano essere formati al collegio di Parigi.

La proposta, fatta dal rettore del Collegio, P. jacques François Frennelet, venne accolta benevolmente da Dom Trouvè, abate generale, e questi ne affidava l’esame dettagliato a un comitato, denominato appositamente ufficio utilità. Non si trattava, però, di un progetto del tutto nuovo. L’organizzazione di scuole-convitto era stata proposta, tempo addietro da Antoine Chautan, abate di Morimond, e questi aveva dichiarato alla stessa sessione del Capitolo generale di essere disposto ad aprire, immediatamente, tre istituzioni di questo genere nelle case della sua filiazione in Francia; ognuna poteva accogliere una ventina di ragazzi superiori ai nove anni, scelti “tra i nobili o tra i poveri, sempre però a servizio dei cittadini”, e questi venivano educati gratuitamente.

Nelle discussioni successive Antoine Desvignes de la Cerve, abate di La Ferté, sottolineava che i corsi dei collegio di Parigi dovevano comprendere anche teologia morale, così che i monaci potevano prestare un servizio pastorale più efficace, quando fosse richiesta la loro collaborazione. Fu probabilmente lo stesso abate di La Ferté che propose la fondazione perpetua, presso il Collegio san Bernardo di Parigi, di quindici borse di studio, ciascuna delle quali consisteva in 100 pistoles (1 pistola = 10 lire fr. di Tours), finanziate dalle entrate delle piccole comunità da affiliare al Collegio. I beneficiari dovevano essere scelti fra i membri dei monasteri più poveri, mentre ci si.phpettava che le case più ricche mandassero a Parigi più studenti, coprendone evidentemente le spese. L’abate generale non solo approvò il progetto ma rivelò anche che egli aveva già scelto due case da unire al Collegio di Parigi; comunque i documenti di quel Capitolo generale non riportano i nomi dei monasteri. Contemporaneamente gli amministratori del Collegio vennero autorizzati a cercare un prestito di 100.000 lire fr. per provvedere ai lavori necessari al restauro ed ampliamento degli edifici: solo gli eventi del 1789 impedirono l’inizio della costruzione.

I ripetuti attacchi contro le comunità contemplative si verificarono per la prima volta nelle terre degli Asburgo. Nel 1782 Giuseppe II (1780-1790) ordinò la chiusura di tutte le istituzioni religiose che egli considerava inutili. L’attività nelle parrocchie non venne riconosciuta come elemento valido per non cadere sotto la legge. La maggioranza delle abbazie cistercensi venne colpita dal decreto imperiale; riuscirono a sfuggire alla secolarizzazione solo le case dove la legge non era ancora stata applicata a causa della morte prematura dell’Imperatore. Fu quello il caso del Belgio, dove una intensa resistenza locale riuscì a rallentare l’impazienza delle autorità. Così, le 14 abbazie maschili e le 39 comunità femminili dell’Ordine di quel paese potettero prolungare la loro esistenza per un decennio, fino all’estinzione, avvenuta con lo scoppio della rivoluzione. Perché le forze più accanite e distruttrici si raccoglievano impetuose in Francia, per poi infliggere un colpo mortale alla vita monastica non solo entro i confini del paese ma anche in tutta Europa, lungo le vie dell’esercito vittorioso di Napoleone.

Il concatenamento tragico degli eventi ebbe inizio con il cambio delle norme per l’elezione dei delegati destinati a rappresentare il primo stato, cioè il clero, negli Stati Generali del Maggio 1789. Luigi XVI, per compiacenza verso il clero secolare, dichiarava che nelle assemblee elettorali locali i curati dovevano esprimere il loro voto singolarmente, mentre ogni monastero aveva diritto a un solo rappresentante e a un solo voto. Il risultato fu inevitabile: sui 296 deputati per il primo stato solo 23 neo-eletti rappresentavano le abbazie e perfino questo numero ben modesto comprendeva soprattutto abati commendatari, la cui conoscenza e interesse per i problemi della vita monastica erano estremamente limitati. Tra i delegati regolari, l’unico cistercense era Claude-François Verguet, il priore di Relecq, già monaco professo di Cîteaux, che rappresentava la diocesi di Saint-Pol-de-Léon. Quando a giugno la maggioranza dei sacerdoti secolari decideva di unirsi al terzo stato, la rivolta dei preti che da tanto tempo si preparava e minacciava di scoppiare, venne a un punto decisivo e culminante, e con essa scomparve il clero francese in quanto entità distinta. Nella nuova Assemblea Nazionale gli ordini religiosi non avevano nessuna rappresentanza effettiva, avevano pochissimi amici, anzi, dato che l’Assemblea continuava a spostarsi verso sinistra, un crescente numero di nemici convinti stava per schierarsi contro di loro.

Le terribili notizie degli eventi sanguinosi del 14 luglio, che avevano portato alla distruzione della Bastiglia, riecheggiavano per tutto il paese disseminando il terrore, seguito da diffusi atti di violenza contro le proprietà e le case delle classi privilegiate. Molte abbazie condivisero le sorti dei castelli della nobiltà. Sembra comunque che poche fra le abbazie delle comunità di Cîteaux furono oggetto di attacco, ed anche in questo caso la furia dei contadini in massa era diretta contro gli archivi dei monasteri, in cui si supponeva fossero conservati dei documenti sui debiti o sulle obbligazioni feudali.

L’Assemblea Nazionale, sotto la pressione esercitata dalle condizioni allarmanti in tutto il paese, il 4 di agosto e i giorni successivi prese delle decisioni precipitose, abolendo tutti i privilegi del clero e della nobiltà, compresi i servizi, le rendite, le decime e tutte le altre fonti di entrata di origine feudale. Ripetutamente venne espressa la speranza di poter dare dei risarcimenti o prendere provvedimenti per il mantenimento delle istituzioni religiose, ma nessuna iniziativa concreta venne mai intrapresa. I monasteri cominciarono immediatamente a sentirne le conseguenze. L’abbazia di Sept-Fons si vide costretta a dimettere, nel mese di agosto, quindici novizi su 36; in novembre dovette partire un altro gruppo e nel febbraio del 1790 i novizi rimasti in comunità erano soltanto due.

La crisi finanziaria, che non accennava a diminuire, fornì altri pretesti per giustificare le decisioni prese dall’Assemblea Nazionale il 2 novembre, in base alle quali tutti i beni e le proprietà della Chiesa di Francia erano “a disposizione della nazione”. Ma prima che venisse elaborata qualsiasi procedura regolare per la confisca dei beni, i contadini si sentirono autorizzati ad impadronirsi di tutto ciò che avevano a portata di mano nei possedimenti dei monasteri. Era stato deciso che i boschi sarebbero divenuti proprietà dello stato; e tuttavia proprio essi furono il primo bersaglio dei predatori, perché il legname poteva essere immediatamente venduto e convertirsi così in denaro liquido. Nel frattempo i monasteri erano esposti a continue molestie e vessazioni da parte di comitati locali, creatisi spontaneamente. I monaci, che sempre avevano avuto qualcosa da condividere con i poveri del vicinato, incominciarono a patire essi stessi la fame ed una estrema privazione. Verso la primavera dei 1790 le condizioni di vita di molti monasteri erano diventate quasi intollerabili. Nel mese di marzo un gruppo di abbazie della Champagne, tra cui Cheminon, trois-Fontaines, Montier, Haute-Fontaine, Boulancourt e Ecurey indirizzarono al presidente dell’Assemblea una lettera commovente, dicendo che “se egli, nella sua saggezza, non trovasse nessun rimedio alla situazione, avrebbe dovuto stabilire al più presto una data per l’evacuazione delle case, altrimenti i religiosi si sarebbero visti costretti ad abbandonare i monasteri, per salvare almeno la vita”.

L’organo dell’Assemblea Nazionale che trattava i problemi degli Ordini religiosi era il Comitato Ecclesiastico, stabilito nell’agosto del 1789. Esso era costituito dà una quindicina di legislatori, la maggior parte laici, ed era presieduto dal relatore, Jean-Baptiste Treilhard (1742-1810), un avvocato instancabile ma anche libero-pensatore, futuro regicida e conte napoleonico. Le sue convinzioni religiose divennero molto chiare grazie al ruolo di primo piano che egli svolse nella legislazione contro gli ordini monastici e con la sua influenza nella redazione della Costituzione Civile del Clero.

Un pretesto per l’intervento diretto nei problemi monastici venne offerto dallo scontento di tredici monaci cluniacensi dell’abbazia parigina di St. Martin-des-Champ. s: essi indirizzarono all’Assemblea Nazionale una lettera il 25 settembre, offrendo la loro casa alla Nazione in cambio di una pensione annuale, ed esprimevano il loro desiderio di libertà, di cui volevano godere al pari di tutti gli altri francesi”. Il 28 ottobre l’Assemblea rispondeva con la sospensione delle professioni monastiche.

Con la decisione del 2 novembre, era chiaro che la vendita delle proprietà monastiche doveva avere inizio con la secolarizzazione dei monasteri. Di conseguenza, il problema venne demandato al Comitato Ecclesiastico, dove Treilhard prese l’iniziativa. Il 17 dicembre 1789 egli presentava un progetto graduale per l’abolizione degli ordini monastici, anche se una forte opposizione impedì di proseguire ulteriormente la discussione su quel tema. Ma la decisione veniva solo rimandata a tempi migliori, cioè fino a che Treilhard non fosse riuscito ad inserire nel suo Comitato altri anticlericali che condividevano il suo pensiero. Così l’11-12 febbraio 1790, dopo un acceso dibattito, scoppiò l’attacco. Delle istanze in favore dei Certosini, della Trappa e di Sept-Fons non vennero nemmeno prese in considerazione; in pratica, il testo finale del decreto superava nella severità dei suoi termini le stesse proposte originali di Treilhard. Secondo le condizioni ratificate, le professioni monastiche erano definitivamente proibite e tutti i monaci dovevano essere interrogati sulle loro intenzioni. A coloro che avessero scelto di abbandonare i monasteri, era promessa una pensione; l’ammontare di questa venne precisata dalle 700 alle 1.200 lire fr. solo più tardi. Per coloro che invece decidevano di continuare a vivere la loro vita monastica, si sarebbero riservate delle apposite case di riunione, senza però indicare ulteriori precisazioni in merito. Nel mese di marzo si ordinava a tutte le case religiose di stendere un rapporto sui loro membri, indicandone l’età e il nome; nel mese di aprile le autorità municipali redigevano degli inventari e l’amministrazione delle proprietà monastiche veniva trasmessa allo stato; nel mese di maggio vennero stesi dei documenti sulle dichiarazioni individuali dei monaci circa il loro futuro ad opera dei magistrati locali. La maggioranza dei religiosi scelsero di accettare una pensione, ma molti altri restarono indecisi. Così, si tennero ulteriori interrogatori nel mese di novembre. Ma, a quel momento la possibilità di continuare a condurre una vita monastica significativa era stata così drasticamente ridotta, che pochi religiosi si espressero volontariamente per far parte delle case di riunione. Queste istituzioni deplorevoli non si erano dimostrate possibili né realizzabili. Difatti, una legge approvata il 4 di agosto 1792 dichiarava che tutte le case religiose superstiti dovevano essere chiuse il I ottobre dello stesso anno, con la sola eccezione delle comunità affiancate ad ospedali o altre istituzioni caritative del genere. Alcuni giorni dopo si proibiva di indossare abito o divisa religiosa.

Diversamente da quanto era avvenuto nel XVI secolo con la dissoluzione della vita monastica in Inghilterra, la soppressione promossa dall’Assemblea Nazionale francese non cercò mai di giustificare la secolarizzazione con il pretesto della corruzione generale della vita monastica. Le forze che alla fine riuscirono ad imporsi contro i monaci non erano affatto provocate dai misfatti degli individui o delle comunità; nascevano da punti di principio e rivolgevano la loro aggressività non contro gli abusi, ma contro il monachesimo stesso in quanto ideale di vita. Agli occhi dei riformatori illuminati il monachesimo si ergeva come simbolo dell’oscurantismo medioevale e del suo immobilismo e.phperato; ed era perciò destinato ad essere. soppresso se si voleva giungere al progresso. Durante il dibattito decisivo che si tenne all’Assemblea Nazionale il 12 febbraio 1790, Barnave dichiarava con una franchezza brutale: “Gli Ordini Religiosi sono incompatibili con l’ordine sociale e il bene pubblico: dovete distruggerli tutti, senza restrizioni”. Petion che parlava sullo stesso tono, non era spinto certamente da supposte condizioni di decadenza dei monasteri quando aggiungeva il seguente ammonimento: “Preservare alcuni significherebbe preparare la rinascita di tutti gli altri”.

La vendita delle proprietà monastiche iniziò alla fine del 1790 e venne continuata e portata a compimento nel corso del 1791. I monaci, sfortunati, non avrebbero goduto a lungo delle loro pensioni. Il pagamento di queste venne subordinato al giuramento di fedeltà alla Costituzione Civile del Clero. Gli ex-religiosi che rifiutavano di obbedire alla legge non solo perdevano il loro diritto alla pensione, ma divenivano sospetti, esposti ad una persecuzione sempre maggiore.

Le formalità della dissoluzione e la vendita delle proprietà monastiche vennero condotte da ufficiali locali, secondo le istruzioni ricevute da Parigi. A Cîteaux, nel maggio del 1790, furono redatti degli inventari e vennero interrogati i monaci sulle loro intenzioni per il futuro. L’anziano e preoccupatissimo abate generale, François Trouvè, annunciò coraggiosamente che egli desiderava vivere e morire da religioso. Il suo esempio venne seguito dal suo priore in carica e da quello precedente, ormai a riposo. Altri 11 monaci e fratelli conversi fecero delle dichiarazioni analoghe, ma con la restrizione che la loro preferenza per la vita monastica alludeva solo a Cîteaux. 29 monaci, in maggioranza giovani, si dichiararono disposti a fare il cambio tra la vita monastica e la pensione loro offerta; due altri esprimevano le loro decisioni in termini condizionali.

La maggior parte dei monaci lasciò l’abbazia nel mese di settembre, e nel gennaio del 1791, i pochi che ancora restavano dovettero andarsene, perché la vendita dell’abbazia era ormai cosa fatta. Gli edifici conventuali con le adiacenze immediate, 800 ettari di terra, vennero venduti il 24 marzo per un totale di 482.000 libbre. Il saccheggio era diventato talmente comune prima e dopo tale data, che le autorità, preoccupate chiesero aiuto all’esercito. Fu così che alla fine venne inviata da Auxonne una compagnia di artiglieria perché si installasse sul posto: era comandata da un giovane luogo-tenente, chiamato Napoleone Bonaparte.

L’ottantenne abate generale, François Trouvè, fu uno degli ultimi monaci ad abbandonare Cîteaux. Nelle sue ultime comunicazioni con i Cistercensi dei paesi esteri, egli autorizzava i suoi vicari in Germania e in Belgio a portare avanti gli affari dell’Ordine nei loro rispettivi paesi con piena responsabilità. Il I aprile 1792, delegava i suoi poteri di abate generale al procuratore dell’Ordine che aveva sede a Roma, Alano Bagatti, abate di Santa Croce. Il documento di tale delega era stato scritto e spedito da Vosne, dove Trouvè viveva, in ritiro, presso la casa di un nipote. E fu nella casa di Vosne, vicino a Cîteaux, che il Generale mori nel 1797.

La stessa procedura per la riduzione allo stato laicale venne seguita contemporaneamente in tutte le altre abbazie francesi. I documenti rimasti, soprattutto le dichiarazioni dei monaci sulle loro intenzioni di restare monaci o di accettare delle pensioni, acquistarono in seguito una grande importanza.

Per dimostrare il basso livello morale che generalmente si riscontrava nei monaci del tempo, gli storici hanno più volte sottolineato che nel 1790 la grande maggioranza dei monaci spontaneamente optò per le pensioni e la libertà di vivere altrove, anziché proseguire nella vita claustrale. Ma conclusioni di questo genere rivelano una totale incomprensione della situazione in cui i monaci si trovavano. Quando nel maggio del 1790 si videro costretti a scegliere fra il continuare a vivere la vita monastica o la pensione, la prima possibilità non era più realizzabile. La dissoluzione degli ordini monastici era già stata decretata. L’unica alternativa apparente era quella di far parte delle case di riunione, là dove monaci di varie comunità dovevano essere raggruppati fino alla loro morte. In quel frangente, tuttavia, né le località, né i regolamenti, né altri dettagli su queste nuove case erano stati specificati e i monaci avevano tutte le ragioni di credere che sarebbero state simili a delle prigioni o a ospizi per i poveri più che a monasteri.

Inoltre, il buon senso suggeriva di accettare le pensioni, che non costituivano una violazione ai voti monastici. I voti monastici, giuridicamente, non domandavano una fedeltà perpetua a un ideale astratto e neppure aderire a un particolare modo di vivere, ma stabilità in un dato monastero e obbedienza a un superiore legittimo. Dato che all’inizio del 1790 la secolarizzazione era già stata decisa, i vincoli giuridici tra le abbazie e i singoli monaci erano già stati infranti, lasciando liberi i monaci di scegliere tra alternative ragionevoli. Se la scelta che effettuavano non era di per sé eroica, non costituiva un tradimento dei voti e non era una apostasia.

Un esame imparziale dei documenti presenta centinaia di esseri umani profondamente a disagio, confusi e perplessi che tentavano angosciosamente di confrontare le esigenze della loro coscienza con i dettami del buon senso. Costituivano una eccezione le persone superficiali che approfittarono dell’occasione ed accettarono senza indugio la pensione offerta, così come lo erano coloro che incondizionatamente decisero di continuare la vita monastica. Quando cominciava a venir meno la struttura dell’Ordine, ne emergevano gli individui, con un gran numero di problemi e di ansie, chiaramente espresse nelle loro dichiarazioni. La maggior parte di coloro che propendevano per lasciare il monastero ed accettare una pensione, si preoccupavano di dare le ragioni del loro comportamento, mentre la grande maggioranza di quanti sceglievano di continuare ad essere dei religiosi promettevano di perseverare solo dietro certe condizioni. Un gran numero di monaci si rifiutò semplicemente di scegliere, affermando che non erano in grado di discernere chiaramente le alternative. Una tale molteplicità di risposte rende difficile generalizzare e ci si espone a degli errori cercando di fare delle statistiche sul contenuto delle dichiarazioni, riducendole a delle semplici formule.

Subito dopo l’espulsione dei monaci, si accese la persecuzione dei sacerdoti che si rifiutarono di prestare giuramento di obbedienza alla costituzione Civile dei Clero, e questa andò aumentando crudelmente. Secondo quanto afferma l’abate di Wettingen (Svizzera) solo un terzo dei monaci cistercensi si sottomise alla legge. Per la maggioranza, non c’era altra scelta che quella di fuggire all’estero o di esporsi alla prigionia, alla deportazione e infine anche alla morte. I documenti sui processi che ne seguirono non sono degni di fiducia; senza dubbio, un gran numero di monaci poté rifugiarsi temporaneamente in comunità cistercensi dei Paesi Bassi, della Germania, della Svizzera e degli Stati Pontifici, ma molti morirono in condizioni disumane nei campi di prigionia francesi o nelle colonie penali della Guiana francese.

I rifugiati non potevano contare sull’ospitalità durevole delle comunità dei loro confratelli all’estero. Le truppe francesi, vittoriose, presto invasero i paesi vicini, propagando con la forza delle armi le loro dottrine rivoluzionarie. I Paesi Bassi, prima vittima, furono invasi con una spietata crudeltà. Si fecero incursioni nei monasteri, vennero redatti degli inventari dettagliati, le abbazie furono arbitrariamente tassate e i religiosi molestati incessantemente. Alla fine, le leggi del 1796 decretarono che tutti i beni monastici dovevano essere confiscati. Ancora una volta, il rifiuto di prestare giuramento di obbedienza alle costituzioni della rivoluzione, divenne pretesto per la persecuzione dei sacerdoti. Anzi, in rappresaglia contro la resistenza di massa, un decreto del 1798 condannò tutto il clero fiammingo alla deportazione. Tale sentenza venne portata a compimento soltanto in parte, ma centinaia di consacrati caddero vittime di questa tirannide, e tra essi 37 cistercensi.

La penetrazione dei Francesi in Italia portò alla distruzione della maggior parte delle istituzioni monastiche. Le procedure legali contro i monaci variavano da stato a stato, ma l’esercito francese non rispettava né diritti né privilegi. In alcune abbazie, i saccheggi furono aggravati dagli assassini. A Casamari, 6 monaci furono uccisi nel 1799 mentre cercavano di salvare dalla profanazione il Santissimo Sacramento. Tra il 1806 e il 1808 la maggior parte dei monasteri sopravvissuti venne soppressa con un decreto.

Quando in Svizzera venne stabilita la Repubblica Elvetica, appoggiata dalla Francia, le proprietà monastiche caddero sotto il controllo del governo e si proibì l’ammissione di novizi. Le tre abbazie Cistercensi, tuttavia, sfuggirono la soppressione totale. Anzi, dopo la secolarizzazione delle abbazie della Germania, avvenuta nel 1803, comunità completamente isolate (Wettingen, Hauterive e Saint Urban) formarono la Congregazione Cistercense Svizzera indipendente, che comprendeva inoltre undici monasteri di monache cistercensi. Le tre abbazie si alternavano nella conduzione della congregazione, eleggendo per tre anni un abate generale. Pio VII ne approvò le costituzioni nel 1806, ma la vita della Congregazione rimaneva precaria. Dopo le guerre napoleoniche, il governo svizzero, che assumeva posizioni sempre più liberali, riesumava una legislazione anticlericale. Nel 1830 venne rinnovata la legge che proibiva l’accettazione di novizi e le proprietà dei monasteri erano di nuovo sottoposte a controllo. La soppressione di Wettingen avvenne nel 1841, seguita nel 1848 dalla secolarizzazione di Hauterive e di Saint Urban.

La fiorente Congregazione dell’Alta Germania si dissolse a causa della cupidigia dei principi tedeschi. La pace di Lunèville (1801) imposta da Napoleone, li privava dei loro possedimenti sulla riva sinistra del Reno, ma li autorizzava a cercare una compensazione assorbendo le proprietà ecclesiastiche. La secolarizzazione generale venne sancita dalla legge nel 1803, con decreto di confisca di tutti i beni dei monasteri, e la concessione di una piccola pensione ai monaci espulsi. Tale sentenza non venne immediatamente portata ad effetto in tutti gli stati della Germania. In Prussia l’attacco infuriò solo nel 1810; in Austria, dove Giuseppe Il non aveva lasciato molte comunità da secolarizzare, le poche abbazie rimaste continuavano a sopravvivere. Ma nel giro di pochi anni, 46 monasteri cistercensi della Germania e 83 comunità femminili vennero espropriati, in tutto il paese. Le favolose ricchezze delle grandi chiese, gli oggetti preziosissimi delle collezioni d’arte e intere biblioteche furono vendute o disperse mentre gli edifici venivano o demoliti o utilizzati per fini secolari.

Dopo lo smembramento della Polonia (1795) sia le autorità russe che quelle prussiane soppressero nei loro rispettivi territori le abbazie cistercensi e soltanto due case polacche riuscirono a sussistere ancora, sotto il controllo austriaco.

La storia dei tre monasteri della Lituania rivela uno sviluppo del tutto particolare. Dopo la suddivisione della Polonia, gli ordini religiosi, rimasti sotto il regime russo, si trovarono ad essere completamente isolati e nel 1803 Benedettini e Cistercensi formarono un’unica Congregazione, insieme ai Camaldolesi e ai Certosini che vi si aggiunsero più tardi. La federazione comprendeva 8 monasteri, guidati da un presidente, eletto per un mandato di tre anni. Nel 1832, dopo aver domato l’insurrezione polacca del 1830-1931, il governo russo abolì gli ordini religiosi in Lituania: sopravvisse solo la casa cistercense di Kimbarowka, e venne proibita l’ammissione di novizi. Anche questo monastero fu soppresso nel 1842; tuttavia, si permise ai monaci di restarvi fino al 1864, quando, in rappresaglia per una nuova rivolta dei Polacchi, la Chiesa Ortodossa ne rilevò la proprietà; l’ultimo priore e i suoi sette monaci furono deportati in Siberia.

Il destino delle istituzioni monastiche in Spagna dipendeva dalla soluzione delle caotiche condizioni politiche che nel 1808 seguirono l’invasione francese. Il Re Ferdinando VII, che era appena asceso al trono grazie a una rivoluzione, venne deposto da Napoleone e sostituito immediatamente dal fratello dello stesso Imperatore, Giuseppe. Questi decretò all’istante la riduzione allo stato secolare di tutti gli ordini religiosi, ma la resistenza popolare e la guerra che scoppiò nella penisola con l’appoggio degli inglesi impedì alla Francia di controllare pienamente tutto il paese. Nel 1814 Ferdinando riacquistò il trono e ristabilì tutte le abbazie soppresse.

Nel 1820 scoppiò un’altra rivoluzione e il nuovo regime liberale riprese immediatamente le ostilità contro gli ordini religiosi. Nel 1823 un intervento militare dei Francesi facilitò un nuovo ritorno del Re Ferdinando che, ancora una volta, abrogò il decreto di secolarizzazione. Tuttavia, alla morte di Ferdinando, nel 1833, il paese, gravemente diviso tra liberali e conservatori, si trovò alla soglia di una guerra civile. Il fratello del Re, Don Carlos, divenne il candidato dei partito dei clericali e dei conservatori (Carlisti) mentre i liberali, anti-clericali, appoggiavano le rivendicazioni della figlia di Ferdinando, Isabella, che aveva allora solo tre anni, sotto la reggenza della madre, Maria Cristina. Alla fine i liberali ebbero la meglio, guidati da Juan Alvarez Mendizabal, che proponeva la confisca dei beni ecclesiastici per poter finanziare, con il guadagno che derivava dalle vendite, la guerra contro i Carlisti.

All’inizio vennero soppressi solo i monasteri che contavano meno di 12 monaci (1835), ma in seguito, secondo l’esempio dato dalla rivoluzione francese, una legge del marzo 1836 convertì tutti i beni dei monasteri in proprietà dello stato ed estromise i monaci dalle antiche case in cui avevano vissuto. Il decreto fece rilevare l’esistenza di 47 abbazie appartenenti alla Congregazione di Castiglia, abitate da 813 monaci cistercensi; la Congregazione di Aragona contava 18 case con un totale di 396 monaci. Le pensioni, troppo basse o non sempre versate, non riuscirono a fornire il necessario ai religiosi espulsi dai monasteri; questi si videro costretti a cercare lavoro come sacerdoti diocesani o altrimenti a vivere di elemosina o sulle spalle dei loro familiari. Alcune delle grandi abbazie vennero utilizzate per opere secolari; altre furono abbandonate ed esposte a una lenta e progressiva rovina. Così, i frutti di sette secoli di lavoro e di preghiera dei Cistercensi ritornarono alla polvere del suolo spagnolo.

In Portogallo, gli eventi si svolsero in modo analogo. La guerra della penisola intrapresa contro i francesi portò alla devastazione completa del paese; la grande abbazia di Alcobaça fu saccheggiata nel 1811. La restaurazione di una vita monastica autentica si dimostrò impossibile perfino dopo la guerra. Per i vent’anni successivi, il paese divenne teatro di intermittenti guerre civili tra le forze liberali e quelle conservatrici. Alla fine, come in Spagna, prevalsero i liberali e un decreto del maggio 1834 secolarizzò tutti i beni dei monasteri. La sorte sia dei monaci che degli edifici fu identica a quella verificatasi in Spagna.

Così il turbine generato dalla Rivoluzione Francese demolì quasi totalmente le istituzioni monastiche in Europa e lasciò come superstiti solo poche comunità isolate, totalmente demoralizzate dalla violenza liberale e anticlericale. In circostanze più favorevoli, le macerie della distruzione materiale sarebbero state facilmente rimosse e sostituite da nuove chiese e da nuovi monasteri, ma l’ostilità di un mondo ormai estraneo alle tradizioni religiose frustrò l’ostinata volontà dei monaci di sopravvivere. Una difficoltà ancora più grande era costituita dalla distruzione di Cîteaux, dalla morte dell’ultimo abate generale e dall’impossibilità di convocare Capitoli generali: tutto questo rendeva quel poco che sopravviveva dell’Ordine a uno stato di disorganizzazione e di mancanza di superiori e di guide, per mezzo secolo.

Alcune singole abbazie sopravvissero qua e là e davano prova di vitalità, ma le diverse linee di sviluppo non riuscivano a convergere. Questo rendeva estremamente difficile la restarurazione dell’Ordine, in quanto istituzione governata da un’autorità centrale e organicamente coerente.

Bibliografia

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L.J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, XIII, Certosa di Pavia, 1989.

© Certosa di Firenze