I Cistercensi

Storia dell’Ordine cistercense

Usi e vita quotidiana

La caratteristica più saliente e durevole della vita monastica tradizionale era, fino all’attuale corrente di aggiornamento, l’horarium quotidiano.

La Regola stessa delineava le attività giornaliere dei monaci, fondate sul “sacro numero delle sette” Ore dell’Ufficio Divino: Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta. L’insolita levata verso mezza notte per le Vigilie trovava giustificazione, al di là dei suo valore ascetico, nelle parole del salmo 118, dove il “profeta” dice: “Nel cuore della notte mi alzo a renderti lode”.

Secondo la stessa tradizione antichissima, gli intervalli che separavano le Ore dell’Ufficio erano consacrati al lavoro manuale o alla Lectio Divina.

Tutte le occupazioni della giornata monastica dovevano svolgersi tra il sorgere del sole e il tramonto. Infatti, fino a quando non si introdusse l’uso di buoni orologi a pendolo (XVII secolo), il principale orologio dei monaci fu il sole. Di conseguenza in estate il tempo di lavoro era più lungo, mentre c’era più tempo per riposare durante le lunghe ore dell’inverno. Bisogna tenere conto, inoltre, anche del livello geografico di latitudine, e non solo il variare della lunghezza dei giorni e delle notti secondo le stagioni: resta perciò abbastanza difficile far concordare l’orario monastico medioevale con l’attuale calcolo del tempo.

Tenendo presenti questi problemi, le tabelle che seguono possono dare un’idea di come i monaci trascorrevano la giornata verso la metà di giugno e la metà di dicembre:

 

 

giugno

dicembre  
Levata 1, 45 1, 20  
Vigilie 2, 00 1, 35  
Fine delle Vigilie 3, 00 2, 35  
Intervallo      
Lodi 3, 10 7, 00 Al sorgere del sole. Messe private e Messa del Mattino
Intervallo      
Prima 4, 00 8, 00  
Capitolo     In inverno, si osservava il seguente ordine: Prima-Messa-Terza-Capitolo
Lavoro 5, 00    
Terza 7, 45 9, 20  
Messa 8, 00    
Lettura 8, 50    
Sesta 10, 40 11, 20  
Pranzo 11, 00 13, 35  
Riposo Meridiano      
Nona 14, 00   In inverno, si diceva Nona prima di pranzo, e seguiva un tempo di Lectio.
Lavoro 14, 30    
Vespro 18, 00 15, 30  
Cena 18, 45   In inverno non si cenava.
Compieta 19, 30 16, 00  
Riposo 20, 00 16, 30  

 

La liturgia delle Ore richiedeva – oltre alla celebrazione dell’Eucaristia e secondo la categoria delle feste – da tre a quattro ore della giornata dei monaci. Il lavoro manuale durava circa sei ore durante l’estate, ma meno di due ore in inverno. Nel periodo invernale invece si dedicava più tempo alla lettura e alla meditazione, soprattutto nel lungo intervallo che separava le Vigilie dalle Lodi. Verso il solstizio estivo, il riposo notturno corrispondeva a un po’ meno di sei ore, e lo si completava con una siesta dopo il pranzo. D’inverno, questo riposo supplementare non era necessario, perché i monaci godevano già più di otto ore ininterrotte di sonno. L’orario quotidiano dei fratelli conversi era totalmente diverso. Essi si alzavano quando i monaci avevano già terminato l’Ufficio delle Vigilie, ma dedicavano molto più tempo al lavoro manuale, ad eccezione delle domeniche e dei giorni di festa, quando prendevano parte a molte cerimonie dei monaci.

Data la difficoltà di misurare le ore della notte elaborarono vari espedienti per l’ora esatta della levata. Il Capitolo generale del 1429 tentò di imporre una totale uniformità chiedendo che in ogni abbazia il sagrestano desse il segno per la levata alle due di notte, durante tutto. l’anno, e all’una per le domeniche e i giorni festivi. Il Capitolo del 1601, stabilì che si doveva spostare alle tre la levata dei giorni feriali. Il, Capitolo del 1765 concesse ulteriori facilitazioni alle comunità che contavano sei membri o ancor meno, permettendo loro di iniziare alle 4.00 la loro giornata monastica. Invece alla Trappa, e nelle comunità poi della Stretta Osservanza, si adottò fino agli anni 1960 l’originale horarium cistercense.

Momento importante della vita quotidiana di una abbazia cistercense era il “capitolo” (capitulum), che si teneva abitualmente dopo l’Ora di Prima, nella sala capitolare, situata accanto alla sagrestia, nell’ala del chiostro rivolta ad est. Vi partecipavano tutti i membri della comunità che avevano pronunciato i voti; novizi e fratèlli conversi avevano capitoli separati. Lo scopo della riunione era quello di procurare una formazione spirituale o occasione per prendere decisioni di carattere amministrativo.

Si leggeva dapprima il rnartirologio, cioè la memoria di tutti i santi che, si celebravano in quel giorno. Seguiva poi Pretiosa, una breve orazione monastica mattutina, e quindi la lettura di un brano della Regola di san Benedetto, con la spiegazione o l’attualizzazione data da chi presiedeva, l’abate o il priore. La domenica e i giorni festivi si leggeva e si commentava il Libro degli Usi e gli Statuti del Capitolo generale.

Una parte meno formale ma più drammatica del capitolo era l’invito del superiore a tutti i partecipanti di presentarsi per accusarsi delle proprie mancanze pubbliche e delle trasgressioni in cui erano incorsi nei confronti delle molteplici norme o regolamenti dell’Ordine. In casi di evidente riluttanza, era concesso ad altri monaci di accusare i fratelli sospetti. Si dava poi ad ogni colpevole una penitenza, che consisteva di solito in gesti di umiliazione, digiuno, deposizione da un ufficio o punizioni corporali, date sul posto. Per colpe gravi, erano previste la scomunica, l’espulsione o la prigione, ma spesso si permetteva di fare ricorso, per queste sentenze, alle autorità superiori.

Benché non menzionati dalla Regola, i periodi di reclusione in carcere costituivano una forma di punizione usata in altri ordini monastici, per esempio a Cluny; a Cîteaux vengono nominati per la prima volta negli atti del Capitolo generale dei 1206, dove si dava la facoltà che in ogni abbazia venissero costruite delle prigioni. Queste venivano prescritte nel 1230, e lo statuto che ne trattava sottolineò che dovevano essere “forti e sicure”. La data corrisponde al periodo in cui si verificarono casi di indisciplina, aggressività e ribellione tra i fratelli; si può supporre allora che queste tetre vestigia della giustizia del braccio secolare furono adottate dai monaci per arginare i crimini di violenza. I documenti del Capitolo generale forniscono ampie prove che, dalla seconda metà del tredicesimo secolo in poi, condanne di incarcerazione, spesso a vita, venivano pronunciate con prodigalità contro “criminali incalliti e incorreggibili, ladri, incendiari, falsari e assassini”. Dato che questi problemi venivano trattati nel capitolo giornaliero i monaci erano tenuti rigorosamente al segreto.

Il capitolo quotidiano costituiva anche l’occasione per annunci importanti, per le nomine o le elezioni degli ufficiali; era anche il momento in cui il priore assegnava ai monaci il loro lavoro o compito specifico. Nei giorni di festa, ci si.phpettava che l’abate pronunciasse un sermone sul tema. Si tenevano in capitolo anche le ammissioni al noviziato, le vestizioni e le professioni. Gli incontri si concludevano con la commemorazione dei membri defunti della comunità e la recita del salmo 129, il De profundis, con le preci conclusive. Come si verificò anche per altri usi, l’importanza e la frequenza del capitolo diminuirono progressivamente durante il corso dei secolo XV, ma tale struttura venne ripresa appieno nella Stretta Osservanza.

Il peso del lavoro manuale variava molto secondo le stagioni: più faticoso in estate, più leggero in inverno. I lavori quotidiani nelle grange spettavano ai fratelli conversi, ma nei periodi dell’aratura o della mietitura tutti i monaci in grado di farlo prendevano parte al lavoro nei campi per il tempo necessario. In quei giorni, la Messa del mattino veniva celebrata qualche ora prima e tutta la comunità usciva poi per il lavoro, portando con sé nei campi vari utensili di lavoro. Là trascorrevano il resto della giornata, pregando e prendendo i pasti. In tali occasioni, si sospendevano le norme del digiuno e si servivano bevande supplementari. Gli Ecclesiastica officia fanno menzione esplicita della distribuzione di una libbra e mezza di pane e di una bevanda di latte e miele.

A mano a mano che le terre dei monasteri venivano cedute in affitto, la richiesta di lavoro agricolo diminuì di molto; tutto il lavoro che richiedevano ancora i giardini, gli orti o i frutteti che circondavano i monasteri veniva assegnato ai fratelli conversi rimasti. Come potevano allora essere impiegati i monaci in lavori di una certa importanza? Domanda difficile e praticamente senza possibilità di risposta, fino alla Rivoluzione Francese.

Dietro citazione esplicita della Regola di san Benedetto, sia i Capitoli che i visitatori regolari riprendevano abitualmente l’ozio senza misericordia, ma né gli uni né gli altri riuscirono a imporre un rimedio realmente soddisfacente. Era evidentemente fuori questione un ritorno al lavoro agricolo organizzato su larga scala, quando la maggior parte delle terre di proprietà del monastero erano già coltivate da contadini fittavoli. Una attività pastorale svolta in misura rilevante andava contro sia alla tradizione monastica che agli interessi del clero secolare. Il lavoro intellettuale avrebbe richiesto previamente una certa organizzazione, la possibilità di avere buone biblioteche o di accedere ad altre, e un costante incoraggiamento, tutte cose che mancavano tra i Cistercensi. Quando i Capitoli generali dei secoli XV e XVI sollecitarono l’organizzazione di archivi e la cura delle biblioteche, era in vista di esigenze meramente pratiche, non dal desiderio di facilitare delle ricerche. Che cosa avrebbero dovuto fare allora i monaci, al di fuori degli impegni religiosi o degli esercizi di pietà?

Come fosse patetica questa situazione si rileva in modo impressionante quando il Capitolo del 1601 prescrisse che: “… per evitare l’ozio, tutti avrebbero dovuto essere intenti, in momenti precisi della giornata, ad un vero studio delle lettere, alla Lectio o altri esercizi di pietà. Se ci fossero poi monaci illetterati o incapaci di studiare, dovranno essere assegnati loro altri lavori, ad esempio la copiatura, la pittura, la tessitura, il rammendo dei paramenti, la rilegatura dei libri o altre attività simili, che li tengano sempre occupati in qualche cosa, perché il diavolo, in cerca di chi divorare, non li trovi dediti all’ozio”. Naturalmente, tutto questo non sostituiva adeguatamente quel lavoro istituzionalizzato ed organizzato che aveva reso fiorente e degno di venerazione il monachesimo dei secoli migliori. Né fu particolarmente felice la decisione presa dallo stesso Capitolo di affidare le pulizie del monastero – quelle del sabato e delle vigilie dei giorni di festa – ai membri più giovani della comunità. Alla fine, il lavoro manuale venne prescritto dall’orario due volte alla settimana, per tutti i monaci. Senz’altro, vedere una fila di religiosi che esce nei campi per un po’ di lavoro di manutenzione o di giardinaggio, doveva essere qualcosa di edificante; resta comunque da chiedersi se tali occupazioni fornissero abbastanza sfogo per canalizzare creativamente le energie o se apportassero quel minimo di soddisfazione che è indispensabile per una sana vita religiosa. È certo che il problema non era sentito in modo così acuto nei tempi dell’Ancien Regime come lo si avverte oggi, perché larghi strati delle classi più elevate, clero compreso, godevano abitualmente di una vita agiata e libera, mantenuta grazie a pensioni e benefici ecclesiastici senza obblighi d’ufficio.

Quando i legislatori della vita monastica trattano dell’alimentazione, sottolineano debitamente la virtù della temperanza e della mortificazione. La Regola di san Benedetto dà prova di un notevole grado di moderazione: eppure dal 14 Settembre (Festa dell’Esaltazione della Croce) fino a Pasqua permette un solo pasto al giorno, e prescrive per tutto l’anno l’astinenza totale e perpetua dalla carne.

Entrambe queste prescrizioni seguivano semplicemente la tradizione dell’ascetismo primitivo che divenne, attraverso la Regola, caratteristica anche del monachesimo medioevale. Una linea ininterrotta di autori cristiani, a partire dai primi padri fino alla tarda scolastica, condivide la convinzione che la mortificazione corporale accresce la vigilanza spirituale, e che l’astinenza costituisce un’arma efficace contro i desideri della carne. L’atteggiamento dei Cistercensi era stato ben sintetizzato da san Bernardo in uno dei suoi sermoni sul Cantico dei Cantici (n. 66): “Mi astengo dalla carne, perché alimentando eccessivamente il corpo nutro anche i desideri carnali; mi sforzo anche di prendere il mio pane con moderazione, perché uno stomaco pesante non mi impedisca di stare diritto in piedi nella preghiera”.

San Tommaso d’Aquino trasmetteva lo stesso messaggio a una generazione successiva e più curiosa, asserendo che: ‘La Chiesa misura gli alimenti che danno maggior piacere e stimolano i desideri sessuali. Di tal genere sono la carne degli animali che brucano i campi e alitano nell’a, ria, e i loro prodotti, ad esempio il latte dei mammiferi e le uova degli uccelli. Questi stessi cibi ci risultano più congeniali: ci danno maggior piacere e più grande nutrimento. La loro consumazione produce una maggior abbondanza di sostanze riproduttive, la cui abbondanza costituisce una pressione verso la concupiscenza carnale. Per questa ragione la Chiesa prescrive che noi ce ne asteniamo quando digiuniamo”.

Gli usi di Cîteaux permettevano, sulle orme della Regola, che si servisse una generosa porzione di pane al pasto principale, con due verdure cotte e, come terza portata, frutta di stagione. Per la cena, quando era prevista, si servivano verdure e frutta, con quanto restava della porzione di pane. Per i giorni di festa, si aggiungeva a pranzo una “pietanza”, cioè pane bianco, pesce, o altre delicatezze monastiche. L’offerta di beneficenze per Messe d’anniversario comprendevano spesso il dono di una “pietanza” per la comunità, e in tal modo portate migliori divennero progressivamente settimanali o anche più frequenti sulla tavola dei monaci. Non era lecito, comunque, servire una pietanza per tre giorni di seguito, neppure durante le sessioni del Capitolo generale. In Avvento e in Quaresima, le restrizioni alimentari non permettevano l’uso di grassi animali, di formaggio e di uova. I venerdì di Quaresima, i monaci digiunavano a pane e acqua. Oltre al sale, per la preparazione delle porzioni cotte, si permetteva soltanto l’uso di aromi coltivati all’interno stesso del monastero.

I membri più giovani della comunità, insieme ad altri, cui si concedevano dei sollievi per le loro infermità, avevano il permesso di prendere una colazione (mixtum) prima o dopo l’Ora di Sesta. Inizialmente si trattava solo di un po’ di pane intinto nel vino, ma in Quaresima si sospendeva anche questo. Nei secoli successivi, tuttavia, si permise a tutti di fare colazione e nel XVIII secolo molte abbazie offrivano la possibilità di scegliere – come è d’uso – fra latte, the o caffè; a volte si aggiungeva anche una scodella di minestra.

Un’altra usanza primitiva, invalsa ovunque, consisteva nel servire una bevanda (biberes) dopo Nona, soprattutto d’estate. Si trattava di un bicchiere di vino, o, se questo mancava, di birra o di sidro. La birra era di solito di tre qualità diverse, con maggiore o minore percentuale d’alcool. La birra migliore era privilegio della mensa dell’abate, oppure era servita in refettorio in occasioni speciali.

L’abate non consumava i pasti in comunità. Aveva una propria cucina e una propria mensa che condivideva, secondo le direttive della Regola, con gli ospiti, la cui presenza era quasi sempre scontata. Quando non vi erano ospiti – cosa assai rara – l’abate era libero di invitare due monaci alla propria mensa. A parte ciò, sia l’abate che i suoi ospiti erano tenuti a seguire le regole sui digiuni e l’alimentazione seguite dal resto della comunità.

Prima di entrare in refettorio, la comunità passava davanti ad una fontana – normalmente artisticamente lavorata – che faceva uscire zampilli d’acqua da vari fori: là i monaci dovevano lavarsi le mani. Essi poi prendevano posto nel lato esterno di lunghe tavole, disposte a forma di U. Il cibo era già servito sulle mense. Dopo una benedizione, data in latino, essi si sedevano, ma cominciavano a servirsi soltanto dopo che il priore aveva scoperto il pane.

Tutti i pasti si consumavano in perfetto silenzio, mentre un monaco leggeva ad alta voce dei brani scelti della Bibbia Latina. Negli ultimi secoli, un brano della Bibbia era seguito dalla lettura di un libro edificante, in lingua viva. Il lettore prendeva posto ad un leggio, collocato in una piattaforma elevata, inserita nel muro. La stessa abitudine era seguita anche nella sala da pranzo dell’abate, anche se questi, per attenzione agli ospiti, poteva far interrompere la lettura ed aprire una conversazione edificante. In molte abbazie, si adottò poi la stessa usanza anche nel refettorio dei monaci, verso gli ultimi secoli. Allora leggere durante tutto il pranzo divenne segno di particolare austerità, seguita soprattutto nelle case della Stretta Osservanza.

Nei paesi dove si poteva coltivare l’uva, la bevanda dei monaci era il vino, bevanda peraltro approvata da san Benedetto con una certa riluttanza. Secondo la Regola, la porzione quotidiana dei monaci era una, hemina, quantità che corrisponde, secondo gli esperti, a 0,75 lt. Questo era posto in una piccola brocca di terracotta, davanti ad ogni monaco: la stessa quantità doveva bastare anche nei giorni di doppia refezione. Là dove il clima era più freddo, il vino era sostituito da birra o da cedro. Se possibile, si cercava di non bere acqua: è notorio infatti quanto poco igieniche fossero le condizioni di approvvigionamento.

Il contegno dei monaci durante i pasti era soggetto a cerimonie dettagliate, che conferiva alla circostanza un carattere quasi liturgico. Gli usi cistercensi per il refettorio chiedevano ai monaci di bere alle tazze tenendole con tutte e due le mani; dovevano servirsi di sale con la punta del coltello; ripulivano poi le loro stoviglie con un pezzo di pane, non con il tovagliolo. La conclusione dei pasti consisteva in un’azione di grazie: la comunità intera andava processionalmente in chiesa, dove la cerimonia aveva termine.

Come si verificò anche in altri ambiti della disciplina regolare, le norme sull’alimentazione si fecero man mano sempre meno severe, soprattutto per quanto riguardava l’astinenza perpetua. Il processo ebbe inizio nelle infermerie dei monasteri, dove si concedeva ai malati di mangiare carne fino a che avessero recuperato le forze. Era facile però essere ammessi con un pretesto qualsiasi in infermeria: occasione offerta in pratica quasi a tutti di gustare un po’ di arrosto. Il Capitolo Generale del 1439, quasi approvando tacitamente tale prassi, insisteva soltanto perché in certe occasioni ben precise almeno due terzi della comunità seguissero la dieta regolare in refettorio; inoltre, nessuno doveva mangiare carne più di due volte alla settimana.

Agli inizi del XIV secolo, le esigenze dell’ospitalità e la difficoltà di trovare verdure offrirono altri pretesti. In un certo numero di casi delle dispense papali concesse a singole abbazie avevano talmente indebolito la legge dell’astinenza che perfino la bolla di riforma di Benedetto XII, la Benedictina, del 1335, non solo non riuscì a ridare vigore alle primitive osservanze, ma concedeva l’esenzione dall’astinenza perpetua agli abati in pensione, e a quanti condividevano la mensa dell’abate.

Verso il 1473 gli usi locali sull’astinenza erano diventati così diversi, che il Capitolo generale decise di rivolgersi alla Santa Sede per avere dei regolamenti nuovi. La chiarificazione di tale problema venne affidata, insieme ad altri problemi più importanti, alla delegazione di abati cui spesso si fa menzione, inviata a Roma nel 1475. Una bolla emanata da Sisto IV il 13 Dicembre 1475 non volle concedere dispense formali, ma autorizzò il Capitolo generale e l’abate di Cîteaux ad adattare la legge dall’astinenza alle mutate circostanze storiche. Di fatto, le autorizzazioni concesse dal Capitolo in favore di alcune abbazie si erano tanto rapidamente moltiplicate nel giro di dieci anni, che l’astinenza perpetua era diventata ormai osservanza dei passato. Le norme della nuova osservanza corrispondevano ai termini dell’autorizzazione concessa nel 1486 all’abbazia tedesca di Eberbach: era lecito servire carne tre volte alla settimana: la domenica il martedì e il giovedì.

L’abbazia inglese di Whalley sotto il governo dell’ultimo abate John Paslew (1507-1537) morto poi in circostanze tragiche, godette un periodo di magnificenza e grande abbondanza, di cui tutta la comunità poté usufruirne. Nel 1520 i monaci spesero più dei due terzi delle loro uscite annuali per cibo e bevande; la loro mensa presentava, tra altre leccornie, fichi, datteri, canditi e torte. I fratelli spendevano inoltre delle somme considerevoli per gli spettacoli di ricevimento: menestrelli e combattimenti d’animali.

Nel XVII secolo, la Stretta Osservanza chiedeva – fondamentalmente – di far ritorno all’astinenza perpetua. La Costituzione Apostolica In Suprema di Alessandro VII, (1666), elogiava l’intenzione degli “astinenti”, ma permetteva al resto dell’Ordine di consumare carne tre volte alla settimana: cioè, approvava le usanze antiche e le dispense ormai praticate ovunque. Ma il movimento di riforma introduceva nuovamente un certo numero di austerità primitive. Un delegato della Boemia al Capitolo generale dei 1667, l’abate Lorenzo Scipio di Ossegg, disapprovando apertamente tali mortificazioni, riferiva come segue i pranzi di Cîteaux: “Alla mensa di mezzogiorno, sempre estremamente regolare, si continuava ininterrottamente la lettura senza il benedicite (segno di interruzione della lettura); tutto il pasto era consumato in meno di un’ora; mai erano servite più di due o al massimo tre portate, tutte preparate in misero stile locale (quello di Borgogna), praticamente senza l’uso di spezie. Il vino però era ottimo, e se qualcuno preferiva, poteva mescolarlo con acqua”.

Non si faceva però molta attenzione all’austerità in occasione delle professioni, delle ordinazioni, delle prime Messe o al conseguimento dei diplomi degli studenti universitari. Solo i mezzi finanziari delle comunità interessate ponevano dei limiti alla sontuosità dei banchetti.

Nel XVIII secolo, mentre la Stretta Osservanza continuava a praticare l’astinenza perpetua, la Comune Osservanza adottò lo stile corrente della vita borghese, conservando solo tracce occasionali-di austerità monastica. Secondo i registri del Collegio san Bernardo di Tolosa, la comunità, composta da dodici monaci più gli ospiti, consumò nel 1755 una quantità considerevole e una gran varietà di carni: carne di manzo (176 libbre), carne di montone (284 libbre); vitello (216 libbre); selvaggina, carne di maiale (108 libbre), galline (107 paia), piccioni (69 paia), capponi (50), polli (228), tacchini (15), oche (6) e anatre (14). Il pesce (663 libbre) e le uova (7.422) costituivano le voci più costose della lista: questo indica che la comunità continuava a preferire – se pur debolmente – la tradizionale alimentazione monastica.

Più caratteristica del luogo era la grande disponibilità di frutti mediterranei, che i monaci trovavano spesso sulla loro tavola: arance, limoni, castagne, olive, fichi ed uva. Il caffè era ancora una cosa rara, servita solo nelle feste. D’altro canto, la comunità beveva una quantità considerevole di vino. Nell’anno scolastico 1753-54, dieci monaci, insieme ai servi e ad ospiti occasionali, consumarono, oltre a più pregiate marche di vino di bottiglia, quindici barili di vino comune da tavola, corrispondente a più di un litro al giorno per persona. Era comunque soltanto una volta all’anno che i monaci si concedevano una prodigalità del resto perdonabile. Era nella festa di san Bernardo (il 20 di agosto), che coincideva con la chiusura dell’anno accademico. Dopo una splendida Messa Solenne ed un panegirico pronunciato da un noto predicatore, invitato per l’occasione, tutta la compagnia, che comprendeva le autorità religiose e civili locali, prendeva posto alla sala da pranzo per gustare un numero infinito di portate, tra le quali si succedevano antipasto, piatto principale, una varietà di carni e di pollame, ciascuna delle quali veniva servita con l’appropriato vino d’annata della regione di Bordeaux. Formaggi, dolci squisiti, caffè e brandy costituivano degna conclusione alla grande festa.

Fino al secolo XVII, l’orario quotidiano dei Cistercensi non comprendeva la ricreazione. Questo non impediva che i monaci comunicassero reciprocamente, soprattutto se le conversazioni potevano essere giustificate da motivi spirituali. Così, il Capitolo generale del 1232 stabilì chiaramente che “al fine di evitare conversazioni illecite si prescrive quanto segue: quando i monaci sono incoraggiati dal “guardiano dell’ordine” (uno dei minori responsabili del monastero) di parlare, la conversazione deve avere come oggetto i miracoli dei santi, temi di edificazione e soggetti che toccano la salvezza delle anime: si esclude la diffamazione, le controversie ed altre vanità”.

La Carta di Visita scritta nel 1523 per il Collegio san Bernardo di Parigi permetteva delle escursioni annuali nella campagna, sotto rigorosa sorveglianza. Passeggiate ricreative vennero approvate nel Capitolo generale del 1601, quando si stabilì che “quando è auspicabile uscire dal monastero per poter respirare un po’ d’aria fresca o per fare ricreazione, le passeggiate con questo fine non dovrebbero condurre troppo lontano né durare più di due o tre ore; vengono permesse solo quando esca tutta la comunità, guidata dal priore”. Tempi di conversazione quotidiana dopo i pasti appaiono nell’orario del Collegio di Parigi attorno al 1630. È probabile che disposizioni analoghe siano state comuni anche in altre case, ad eccezione di quelle sottoposte al controllo della Stretta Osservanza.

Usanza propria della vita monastica era l’utilizzazione di un linguaggio a segni, reso necessario dalla regola rigorosa del silenzio. Esso venne introdotto a Cluny dall’abate Odone (926-942) e si era diffuso nelle congregazioni riformate dell’XI e XII secolo. Cîteaux non prescrisse delle regole obbligatorie sull’uso dei segni ma adottò probabilmente il linguaggio a segni utilizzato a Molesme. I segni, formati con le dita o con le braccia, non potevano essere usati per fare vere e proprie conversazioni ed avevano soltanto lo scopo di trasmettere messaggi o istruzioni semplici. Un manoscritto proveniente da Clairvaux, tuttora esistente, contiene un “dizionario” di 227 segni, che coprono lo stesso numero di parole o termini latini. Espedienti analoghi si usavano altrove per esprimere concetti simili. Numerose norme restrittive, approvate dal Capitolo generale, sembrano indicare che il linguaggio a segni veniva spesso usato per scherzare o per divertirsi, invece che per promuovere uno spirito di silenzio e di raccoglimento. Con il progressivo dissolversi delle norme sul silenzio assoluto, si eliminava la necessità del linguaggio a segni, che venne poi restaurato più tardi dalla Stretta Osservanza.

Negli ambienti destinati al riposo, i primi monaci di Cîteaux avevano fatto degli sforzi coraggiosi per conformarsi alle prescrizioni della Regola di san Benedetto. Di conseguenza tutti i monaci, indipendentemente dal loro numero, dovevano dormire nello stesso dormitorio comune e dovevano coricarsi completamente vestiti. Il “letto” consisteva in una semplice branda con un pagliericcio, un guanciale ed una coperta di lana. Come austerità supplementare, si aggiungeva la proibizione stabilita dall’Ordine di avere qualsiasi fonte di riscaldamento nei dormitori. Nei climi del nord, dove l’aria umida e gelata penetrava in queste grandi sale dalla fine di novembre per esserne cacciata via solo all’arrivo della primavera, in aprile, la notte esigeva dai monaci tanta forza di sopportazione quanta ne richiedeva il duro lavoro quotidiano.

Non fa meraviglia quindi che il Capitolo generale si sia trovato ben presto a combattere su due fronti una battaglia destinata in partenza alla sconfitta: cercare di parare i colpi davanti agli sforzi fatti costantemente per procurare un po’ di riscaldamento nei locali destinati al riposo, ed impedire la suddivisione dei dormitori comuni in piccole celle, desiderate con la crescente accentuazione degli studi e la nostalgia di una certa intimità personale. Fin dal 1194 il Capitolo generale punì l’abate di Longpont per aver fatto costruire un dormitorio “irregolare”. Lungo il corso del secolo XIII le irregolarità crebbero di numero, tanto che nel 1335 la Benedictina dovette affrontare apertamente la sfida e rafforzare l’antica legge con l’autorità del pontefice. Ma anche allora, la bolla fece eccezione per i malati dell’infermeria e per un numero non meglio specificato di “ufficiali, i quali non possono riposare abbastanza nel dormitorio”. Inoltre, priori e sottopriori venivano autorizzati a costruire per sé celle individuali nei dormitori comuni, anche se tutte le altre celle dei dormitori comuni dovevano essere eliminate nel giro di tre mesi, sotto pena di scomunica. Secondo una interpretazione successiva, nella bolla si indicava con il termine “cella” una stanza avente una porta fornita di serratura: si potevano tollerare perciò dei semplici muri divisori sprovvisti di porte. Ad ogni modo, il Capitolo generale del 1392 concesse a un monaco di Boulbonne di chiudere la propria abitazione con una porta.

Nel frattempo, la rapida diminuzione del numero dei monaci insieme all’orientamento crescente verso una vita più intellettuale rendevano praticamente insostenibili i dormitori all’antica. Il Capitolo dei 1494 autorizzò gli abati a dispensare praticamente tutti, per “giusta causa”, dal dormitorio comune, anche se il decreto insistette ancora nel far togliere le stufe dai dormitori comuni. Nel 1565 l’abbazia di Poblet ricevette il permesso di suddividere il dormitorio in celle private. Il Capitolo del 1573 cercò soltanto di impedire che si costruissero celle fuori dai locali dei dormitori. Il Capitolo del 1601 approvò tacitamente che si disponesse ovunque di celle adeguatamente arredate, quando permise ai monaci di studiare nelle proprie stanze. L’eliminazione delle fonti di calore venne prescritta per l’ultima volta nel 1605, anche se tale decreto venne ben poco osservato, allo stesso modo delle innumerevoli richieste precedenti. Da ultimo, la Costituzione In suprema del 1666, “per maggiore modestia e autenticità di vita”, approvò le celle individuali, sobriamente arredate. La Trappa e la Stretta Osservanza del XIX secolo fecero ritorno al dormitorio comune e in queste case, come nel primo Cîteaux, l’unico locale riscaldato era il calefactorium.

Le fonti di cui disponiamo danno solo scarse informazioni sull’igiene personale dei monaci. Senz’altro non c’era né tempo né modo per lavarsi, prima delle Vigilie, e l’unica possibilità in questo senso sarebbe stata la fontana del lavabo, all’entrata del refettorio. Il mandatum, cioè la lavanda dei piedi che i monaci praticavano tutti i sabati, alla sera, da Pasqua al 14 di settembre, aveva probabilmente, al di là del carattere liturgico, uno scopo pratico. La prima menzione del mandatum appare negli Ecclesiastica Officia, e ad esso si fa allusione ancora negli statuti del Capitolo dei 1601.

Inizialmente si permetteva solo ai malati, in infermeria, di prendere il bagno. Tutti coloro che avevano l’ardire di recarsi a luoghi balneari naturali, venivano rimproverati duramente ed erano puniti dal Capitolo generale. Uno statuto nel 1189 sancì che quanti fossero usciti dal monastero per cercare “bagni caldi” non avrebbero dovuto essere riammessi. Nel 1202 l’abate di San Giusto, in Toscana, venne deposto per aver pranzato in compagnia di secolari e – come afferma laconicamente il testo – “per essersi permesso di prendere un bagno, toltosi l’abito, fuori dell’abbazia”. Nel 1212 un monaco di Hautecombe venne chiamato a presentarsi e a dare spiegazioni per aver mangiato carne e per aver preso un bagno. Nel 1225 l’abate dell’abbazia ungherese di Pilis venne accusato del crimine seguente: essere entrato in un bagno pubblico di Sabato Santo, dove si era anche rasato.

In questo campo, il primo indizio di rilassamento appare nel Capitolo del 1437, che stabilì che: “i bagni non devono essere permessi alle persone sane più spesso di una volta al mese”. Uno statuto del 1439 sembra supporre che a quell’epoca prendere il bagno era già diventato una cosa normale. Sottolineò ancora che fare il bagno era un favore da accordare una volta al mese, ma aggiungeva che questo non avrebbe dovuto essere occasione per un “contegno chiassoso o scomposto”; inoltre, quelli che lo facevano dovevano accontentarsi del servizio di due soli servi. Dove erano sistemati i bagni? Forse in infermeria. Da ultimo, il Capitolo generale del 1783 permise persino che i monaci frequentassero le stazioni balneari pubbliche, se ciò fosse giustificato da considerazioni di carattere medico.

All’inizio, i monaci si radevano o si sottoponevano alla tonsura monastica sette volte all’anno, alla vigilia delle feste principali. Nel 1257 il Capitolo generale aumentò la frequenza a dodici volte, e uno statuto del 1297 prescrisse che i monaci avrebbero dovuto radersi due volte al mese. Tale prescrizione venne confermata dalla Costituzione In suprema del 1666, anche se il testo di quest’ultima sottolineò piuttosto la proibizione di portare una barba, tagliata alla moda.

Un insieme di ragioni di carattere medico e ascetico giustificava l’applicazione periodica di salassi (flebotomia) a cui si sottoponevano i monaci. Ogni membro della comunità doveva sottomettervisi quattro volte all’anno, a meno che, in quel momento, non fosse malato, o in viaggio o occupato in un lavoro faticoso. Dal Medioevo fino all’inizio dell’età moderna si credeva generalmente che. i salassi, al di là dei benefici in determinati casi medici, costituissero un presupposto indispensabile per godere buona salute e un mezzo efficace per lottare contro gli stimoli sessuali. Se ne trattò nella prima legislazione cistercense con il termine minutio, e l’uso si prolungò fino al XIX secolo. Veniva praticato nel calefactorium o in infermeria, e coloro che vi si sottoponevano avevano poi diritto ad alcuni giorni di riposo, di cibo e di bevande supplementari.

Per la cura degli infermi e degli anziani, predominava uno spirito di grandissima sollecitudine. Parte integrale di qualsiasi pianta di monastero era una grande infermeria, costruita un po’ lontano dal chiostro. La sala principale dell’infermeria di Cîteaux misurava 55 metri di lunghezza e 20 metri di larghezza, ed era suddivisa in tre navate da due file di colonne slanciate, che reggevano un elegante soffitto a volte gotiche. L’infermeria di Ourscamp, tuttora esistente, viene utilizzata come la chiesa parrocchiale del luogo. Quest’ultimo edificio comprende un piano superiore con celle individuali utilizzate per i malati gravi. Ma anche le costruzioni più umili presentavano dei locali per i monaci e i fratelli incaricati degli infermi ed erano attrezzati con una farmacia, una cucina e un grande camino.

I malati in grado di camminare dovevano partecipare agli uffici nella chiesa dell’abbazia; tuttavia spesso si univa all’infermeria anche una cappella, dove si poteva celebrare la Messa e amministrare i sacramenti. Si supponeva che tutti, infermi e personale di servizio, conservassero la regola del silenzio; le norme sull’alimentazione, però, erano parzialmente sospese, secondo la gravità delle singole malattie. Il refettorio dell’infermeria veniva spesso denominato misericordia, perché in esso, senza cadere nella commiserazione, i membri più deboli della comunità potevano mangiare carne.

L’assistenza agli infermi non superava, normalmente, le medicine o le medicazioni domestiche. Se qualcuno dei monaci che lavoravano in infermeria aveva avuto la possibilità di acquisire una esperienza in campo medico, era pura coincidenza. Fu soltanto con il Rinascimento che molte grandi abbazie assunsero al proprio servizio un medico laico, residente nel luogo, o un chirurgo, incaricato inoltre dei salassi regolari praticati ai monaci. Questi poteva anche accompagnare l’abate ed il suo seguito nei lunghi viaggi richiesti dalle visite regolari. Secondo i regolamenti del Capitolo generale del 1189, i monaci infermi non potevano cercarsi una cura fuori dal loro monastero e fu solo molto più tardi che i Cistercensi vennero autorizzati a recarsi presso famose case di cura.

Quando un monaco era in punto di morte, il suono delle campane chiamava tutti i confratelli al suo capezzale, perché potessero assistere all’amministrazione dell’unzione degli infermi e al suo felice transito. Per queste cerimonie, il pagliericcio era tolto dal letto e collocato a terra, sopra uno strato di cenere. Quando aveva esalato l’ultimo respiro, la comunità si ritirava e il corpo del defunto veniva t.phportato in una stanza adiacente, e deposto sopra una lastra di pietra. Veniva quindi spogliato dei suoi indumenti, lavato in acqua tiepida, dalla testa ai piedi. Era questo un gesto simbolico e faceva seguito a una immemorabile tradizione cristiana, ma forse lo si poteva interpretare come una autopsia primitiva, che rivelava le devastazioni visibili della malattia mortale e forse le cause della morte. Inevitabilmente, i monaci cercavano con curiosità i segni delle mortificazioni fisiche del confratello defunto, per l’edificazione dei posteri. La lastra funebre dell’obitorio di Clairvaux su cui venne lavato il corpo di san Bernardo divenne oggetto di venerazione. Alcuni devoti visitatori pretesero di aver visto l’impronta del corpo del Santo sulla pietra liscia.

Se si può fare affidamento ad una storia del Dialogus Miraculorum di Cesario di Heisterbach, anche se fortemente ricamata, fu proprio in tale occasione che i monaci di Schönau scoprirono che “Fra Giuseppe”, morto da novizio, era una ragazza. Il nome della giovane risultò essere quello di Ildegonda, figlia di un devoto cittadino di Neuss am Rheim: questi l’aveva condotta in pellegrinaggio in terra santa dove era poi morto, lasciandola sola e in mezzo ad ogni difficoltà, in terra straniera. Dopo privazioni incredibili e miracolose avventure, Ildegonda riuscì a far ritorno in Germania, dove l’abate di Schönau – credendo che fosse un giovane ragazzo – la ammise al noviziato. La sua morte era avvenuta nel 1188, e quando Cesario ne raccontava la storia una trentina d’anni dopo, stava già diventando quella famosa “Santa Ildegonda” che sarebbe stata poi venerata nei secoli successivi del Medio Evo.

Dopo che il corpo del defunto era stato lavato, rivestito dell’abito regolare dei Cistercensi e della cocolla, veniva portato in processione fino alla chiesa e deposto su di un letto funebre, in mezzo al coro. Se rimaneva ancor del tempo per celebrare la Messa funebre le esequie venivano celebrate quello stesso giorno. Altrimenti, i monaci vegliavano il corpo, il giorno e la notte successiva, e preparavano la Messa e la sepoltura per il giorno dopo. Al termine delle cerimonie funebri, il corpo veniva t.phportato, attraverso una porta, situata nella parete nord del transetto, fino al cimitero adiacente alla chiesa. La salma veniva calata nella tomba senza bara e il posto della sepoltura non veniva segnalato da nessuna iscrizione. Solo a partire dal XVII secolo una croce di legno, su cui era inciso il nome del monaco e l’anno della morte, cominciò ad essere posta sopra ogni tomba. Nei cimiteri delle abbazie più numerose, ad esempio Clairvaux o Orval, c’era sempre una fossa scavata di fresco, in attesa di colui che l’avrebbe occupata, forse ancora ignaro del proprio destino.

Gli abati venivano tumulati sotto il chiostro, tra la sala dei capitolo e la chiesa; a volte anche sotto la sala del capitolo o in un sepolcro sotterraneo, sotto la chiesa. La collocazione delle tombe degli abati era indicata da pietre sepolcrali più o meno decorate, incassate nel pavimento dei chiostro o infisse nelle pareti.

Per i lettori moderni, una vita monastica rigidamente strutturata e ritualizzata quasi all’estremo, senza che praticamente nulla venga lasciato all’iniziativa individuale, sembra essere contro natura, perfino inumana. Ma bisogna tenere presente che molte grandi abbazie contavano centinaia di membri, ciascuno dei quali aveva un temperamento diverso, con un diverso grado di intelligenza e una diversa provenienza sociale; tutti dovevano trascorrere la loro vita in pochi ambienti ravvicinati, che non offrivano quello spazio di “privacy” considerato indispensabile dagli uomini di oggi. In tali circostanze, vivere armoniosamente insieme, in una reale creatività di gruppo sarebbe stato impossibile senza l’imposizione di regolamenti precisi, che assegnavano ad ogni individuo il proprio – limitato – ruolo e spazio vitale, riducendo così la possibilità che si verificassero continui contrasti a causa di scontri tra le volontà individuali e gli interessi personali.

Fu proprio grazie alla sua rigorosa disciplina e all’organizzazione ricca di significato che la vita monastica lasciò un’orma indelebile sulla cristianità. Anche lo spettatore più semplice resta fortemente impressionato dal grande successo che i monaci riscossero in ogni campo in cui orientarono le proprie molteplici attività. Ciò che venne realizzato a livello di vita spirituale e intellettuale, la monumentale architettura, l’efficienza economica e il bene che ne trassero le singole persone dimostrano con eloquenza la superiorità di una vita basata sull’accettazione volontaria della disciplina, sulla dedizione ad un lavoro faticoso e sulla sottomissione all’autorità religiosa. La ferma convinzione del mondo occidentale, secondo la quale il lavoro, anche quello manuale, nobilita l’uomo, e che “l’ozio è il nemico dell’anima”, e di conseguenza che il lavoro è l’unica fonte di benessere moralmente accettabile, costituiscono altrettanti elementi del nobile testamento lasciatoci dal monachesimo cistercense.

 

Bibliografia

(...)

L.J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, XXIII, Certosa di Pavia, 1989.

© Certosa di Firenze