I Cistercensi

 

Storia dell’Ordine cistercense

I monaci e la società

I Cistercensi del XII secolo non avevano nulla di più caro della solitudine di quel deserto che si erano scelto: eppure l’enorme successo dell’Ordine si può spiegare soltanto in base al fecondo rapporto che esisteva tra le loro abbazie, poste nel deserto, e la società che le circondava. Gli ideali religiosi ed ascetici dei monaci ebbero una forte risonanza in ogni parte dei mondo: i vari strati della società, i nobili, il clero secolare, gli studiosi e gli abitanti delle città sentivano il fascino delle prime abbazie cistercensi tanto quanto ne erano attratti i numerosi contadini che entravano tra le fila dei fratelli conversi. Quanti non avevano né il coraggio né la possibilità di unirsi a loro, seguivano in altro modo la vita eroica dei monaci, contribuendo con mezzi materiali allo sviluppo dell’Ordine.

Un legame vitale tra i monasteri e il mondo circostante risultava dal fatto che le mura del monastero accoglievano i figli (o talora, i padri) di quanti restavano nel mondo. L’accettazione di un novizio era segnata spesso da un atto di donazione, grande o piccola che fosse. In tal modo il benefattore e la sua famiglia provavano senz’altro una qualche identificazione con i monaci e questi a loro volta si sentivano responsabili nei confronti di coloro che li aiutavano. Quando, in seguito, si moltiplicarono le forme di donazione dietro compenso (con l’obbligo assunto dalla abbazia di assicurare la sussistenza del benefattore con rendite annue, con una pensione, o con l’assicurazione di vitto e alloggio) ciò non dovrebbe essere considerato soltanto come affare commerciale: costituiva un riflesso dell’atmosfera diffusa di fiducia e di reciproca interdipendenza.

Quanti avevano bisogno di assistenza non solo finanziaria, erano spesso accolti all’interno della comunità e si offriva loro rifugio e protezione, oltre che servizio personale, in certi casi. Verso il 1200, un uomo preso in ostaggio e poi diventato cieco, aveva ceduto le proprie terre ai monaci dell’abbazia di Margam, nel Galles; in cambio, venne accolto nel monastero come fratello converso, e qui “visse in sicurezza tutti i giorni della sua vita”. Altri vennero accolti con qualifiche diverse, come un certo John Nichol, ammesso a Margam nel 1325, il quale aveva fatto donazione delle sue terre ai monaci, e venne perciò assunto in qualità di”libero sergente”; egli aveva diritto a tre pagnotte al giorno, a una misura della “birra forte” dei monaci e ad altri benefici, per tutta la vita.

Nell’abbazia di Poblet, in Catalogna, il gruppo dei piccoli benefattori o donatori, chiamati donados, costituiva all’interno dell’abbazia una “classe” speciale. Essi vivevano in ambienti e dormitori a parte, potevano accedere ai negozi e ai servizi dell’abbazia con uno sconto speciale. Dopo la morte delle loro consorti, i donados potevano diventare fratelli conversi. Se il donado moriva per primo, la moglie e i figli venivano mantenuti dai monaci.

Tali donati, familiares o talora oblati, si ritrovano in così tanti documenti d’archivio che il loro numero e il loro ruolo nella maggior parte delle abbazie dovette essere considerevole. I riferimenti fatti ad essi nei primi documenti del Capitolo generale sono un po’ambigui, ma risulta chiaramente dalla legislazione successiva (1213, 1233) che la loro ammissione venne ben presto segnata da un atto solenne. Davanti all’abate, essi facevano una rinuncia al diritto di proprietà, promettevano obbedienza ed in cambio la comunità si impegnava ad assicurare loro lo stesso nutrimento, le stesse bevande e gli stessi abiti dei monaci e si concedeva loro di prendere dimora in ambienti separati da quelli dei monaci. Essi dovevano aiutare i fratelli nel lavoro manuale o nella gestione dei beni del monastero. Indossavano una specie di divisa e portavano anche una certa forma di tonsura.

L’importanza dei familiares crebbe in proporzione alla crescente scarsità dei fratelli conversi. Verso la fine del XIII secolo il loro numero era aumentato a tal punto che in alcune comunità essi davano origine a problemi di disciplina. Il Capitolo generale del 1293 prescrisse che “a seguito dei disordini spesso sollevati dal numero eccessivo di queste persone… non si potrà concedere (ai familiares) l’ammissione all’abito e alla condivisione dei beni materiali senza una speciale autorizzazione dello stesso Capitolo”. L’istituzione continuò ad esistere anche dopo il Medio Evo, sebbene il termine usato per indicare tale genere di persone venne spesso sostituito da quello di “prebendario”.

I Cistercensi non desideravano svolgere nessun ruolo nelle strutture della società feudale: eppure sembra che, là dove tornava a beneficio dei contadini della zona, alcuni abati accettarono di assumere la responsabilità di protettori o avvocati. Esempio interessante è quello dato dall’abbazia di Acey, nella Franca Contea, fondata nel 1136 con monaci provenienti da Cherlieu. Poco dopo la fondazione un certo Gerardo de Rossillon fece donazione ad Acey della propria casa e dei propri beni: seguiva in questo l’esempio di altri quattordici membri della stessa popolazione rurale, che avevano fatto dono all’abate Guido di Cherlieu, con un apparente atto di “affidamento”, di tutto quello che possedevano: l’abate aveva immediatamente ceduto a sua volta le terre ai rispettivi donatori con l’assicurazione della sua protezione. Si trattava ovviamente della prassi di una procedura feudale grazie alla quale dei liberi proprietari di terre non soggette a vincoli feudali, riconoscevano la signoria dell’abate; non si conoscono tuttavia né i motivi che spingevano a tali passi né gli obblighi derivanti dall’atto giuridico. Sembra comunque certo che i contadini della regione facevano questo spontaneamente esprimendo così la loro preferenza di essere protetti dai monaci e la stima che essi avevano per le abbazie appena fondate.

Quando scomparvero, in pratica, i fratelli conversi e i monaci si ridussero notevolmente di numero, le abbazie dovettero appoggiarsi sempre di più all’aiuto dei laici, quali braccianti o supervisori. Le statistiche che possediamo su nove comunità Cistercensi in Inghilterra attestano che alla vigilia della soppressione il numero dei monaci professi era soltanto di 108; essi avevano assunto però quasi 300 laici, per svolgere mansioni diverse. Tra queste nove abbazie, la sola Biddlesden contava 51 servi e Stoneleigh dava lavoro a 46 dipendenti. Nella maggior parte dei casi la fedeltà dei personale laico rimase incrollabile. Quando il Duca di Sussex volle investigare quale fosse il coinvolgimento dell’abbazia di Whalley nel “Pellegrinaggio di Grazia”, si lamentò di non essere in grado di raccogliere prove a causa “dei gran numero degli uomini pagati dall’abate”.

Come succedeva in tutta Europa, nell’Inghilterra dell’ultimo Medio Evo il personale laico assunto dai monasteri proveniva dalle città vicine o dall’alta borghesia locale, che nutriva un grande interesse per gli affari dei monaci, soprattutto nei momenti dell’elezione abbaziale. Per esempio, a Furness, le ultime due elezioni che precedettero la soppressione vennero decise dall’intervento vigoroso dei laici. All’elezione di Alessandro Banke, nel 1497, fecero seguito decenni di intrighi, perché gli oppositori cercavano di destituire il titolare dall’incarico. A un certo punto Alessandro Banke fu costretto a difendere la propria posizione con un esercito privato, formato di 300 suoi servi. Non c’è da stupirsi se Banke lasciò dietro a sé grossi debiti, aggravati da pensioni, rendite annue o vere e proprie bustarelle date a un certo numero di ufficiali del re o alle autorità locali.

Un altro vincolo tra le abbazie cistercensi e la società era costituito dall’ospitalità, servizio peraltro tradizionale dei monasteri. La legislazione più antica dell’Ordine sollecitava l’esercizio di tale opera di bene soprattutto in favore dei monaci itineranti e del clero: ma con altrettanta generosità si offriva vitto e alloggio anche ai laici che erano in viaggio. Molte abbazie tenevano, un po’distante dagli edifici del monastero, una specie di ospizio riservato ai visitatori. Secondo i registri dell’abbazia inglese di Beaulieu, questa comunità raramente mancava di ospiti. Si specificava con cura la qualità e la quantità di cibo servita agli ospiti, così come si precisavano i compiti dei fratelli che si occupavano di loro. I parenti dei monaci potevano rendere loro visita tre o quattro volte all’anno per due giorni consecutivi. L’onere dell’accoglienza doveva essere rilevante, perché si stabiliva che nel caso in cui gli ospiti avessero desiderato restare più a lungo, avrebbero dovuto provvedere a se stessi.

Particolarmente gravose erano le visite dei membri della famiglia reale o di altre grandi personalità dell’alta società laica o ecclesiastica. In tali occasioni, si serviva con liberalità cibo e bevande, anche se gli ospiti, almeno fino alla metà del XV secolo, dovevano osservare la regola della astinenza perpetua, qualunque fosse la loro condizione sociale. Dietro richiesta dell’abate del monastero di Maulbronn, in Germania, il Capitolo generale del 1493 concesse l’autorizzazione specifica di servire carne: “perché” – affermava il Capitolo – l’abbazia accoglieva con frèquenza “ospiti di riguardo, uomini di lettere, nobili e magnati, che non solo recano onore al monastero, ma anche all’Ordine intero”. Si deduce ovviamente, perciò, da tali osservazioni, che i visitatori di alto rango o di condizione sociale più elevata venivano accolti con maggiore riguardo e in luoghi migliori che non i viandanti ordinari.

Donazioni e doti per le foresterie dei monasteri vennero concesse a segno di riconoscimento per il servizio e i sacrifici finanziari che supponevano. Nel 1269 Hermann, Vescovo di Schwerin, concesse una indulgenza di quaranta giorni a tutti coloro che facessero delle donazioni in favore della casa degli ospiti dell’abbazia di Doberam, “poiché (i monaci) sostengono un gravosissimo onere di costi e spese a favore degli ospiti e dei pellegrini”. L’abate del monastero di Basingwerk, nel Galles, nel 1346 si scusò davanti a Edoardo III per non aver versato il pagamento di un sussidio richiestogli, facendo notare che l’abbazia era situata nei pressi di una strada di grande transito: tale circostanza significava la necessità di sostenere grandi spese per l’ospitalità. Alla vigilia della soppressione, venne presentato a Enrico VIII un appello a favore di Quarr Abbey, che, secondo i termini della petizione, doveva essere preservata quale ospizio per i viandanti poveri e gli uomini di mare. Contemporaneamente, l’abbazia di Santa Maria, in Irlanda, venne presentata come un “comune luogo di soggiorno” per tutti coloro che cercavano ospitalità, mentre i monaci venivano considerati “solo dei dispensieri e personale di assistenza” per il bene pubblico, “di molti poveri, studenti ed orfani”.

Oltre ai normali servizi dell’ospitalità, molte abbazie cistercensi tenevano degli ospedali, soprattutto per i malati poveri del vicinato, anche se normalmente i monaci non esercitavano la medicina al di là dell’amministrazione di farmaci casalinghi. Fin dal 1197 l’abbazia di Zwettl, in Austria, gestiva un “ospedale per i poveri”. L’ospedale era riccamente arredato, e copriva le necessità dei trenta malati poveri che accoglieva; di essi avevano cura dieci infermieri. Nel 1208, il Conte Sigfrido di Blakenburg diede un ospedale in donazione all’abbazia di Michaelstein, in Germania. Il Capitolo generale del 1218 non solo approvò questo “ospedale per i poveri”, ma sottolineò anche che esso doveva restare sotto la responsabilità dello stesso personale dell’abbazia. Himmerod teneva nel 1259 un “ospedale per i poveri”, finanziato da fondi e donazioni speciali. Oltre ai malati provenienti dai villaggi vicini e a pellegrini, si accoglievano anche degli anziani, come ad esempio un vecchio soldato, che verso il 1300 venne invitato dall’abate a trascorrervi il resto dei suoi anni. Secondo i dati raccolti da Franz Winter, istituzioni analoghe erano gestite lungo il XIII secolo da un certo numero di altre abbazie cistercensi in Germania, ad esempio a Pforta, Altzelle, Chorin, Volkenrode, Camp, Reifenstein e Walderbach.

Molte abbazie inglesi si occupavano dell’assistenza a malati poveri. Nell’abbazia di Beaulieu, verso la fine del XIII secolo, i registri fanno menzione di una infermeria, dove venivano curati i servi dell’abbazia che si erano ammalati, insieme ad altri. Questi poveri, alla loro morte, venivano sepolti dai monaci; questi, inoltre, prendevano disposizioni a proposito dei pochi beni di cui disponevano. A Meaux, durante il governo di Michael Brun (1235-1249), venne versata una grossa donazione per “il mantenimento dell’ospedale per i laici”, anche se il benefattore, oltre a una certo compenso in denaro, chiedeva per sé il dono di un paio di guanti bianchi, ogni anno a Pasqua. L’ospedale di Newminster ricevette un certo numero di donazioni cospicue, alcune fatte specificamente “per il mantenimento della lampada che brucia nella infermeria dei secolari in beneficio dei poveri di Cristo che vi sono accolti”. In Inghilterra altre abbazie gestivano ospedali di questo genere, ad esempio Fountains, Furness, Holmcultram, Pipewell, Rievaulx, Robertsbridge, Sawley, Sibton e Waverley.

In Scozia, mantenevano degli ospedali Melrose, Cupar e Kinloss; ciascuna di queste abbazie accoglieva da otto a dieci persone. Nel XIII secolo, Strata Florida, nel Galles, aveva un ospizio affidato alla sollecitudine dei monaci, nel “campo dei lebbrosi”. I documenti d’archivio dell’abbazia di Gimont, in Francia, riportano il nome di un monaco, Arnaldo, che nel 1187 era infermiere nell’ospizio dell’abbazia. Nel 1206, un altro monaco, Guglielmo, era “infermiere dei poveri”. Nel 1222 un certo Antonio de la Crose fece una donazione mentre giaceva malato “nell’ospedale dell’abbazia di Gimont”. Villers, nel Brabante, teneva nel XIII secolo un “ospedale dei poveri” ben provvisto, affidato all’amministrazione di un fratello converso.

Fra gli statuti del Capitolo generale del 1490, si trova un riferimento tardivo a un ospedale. L’abbazia di Buch, in Sassonia, presentava una relazione sull’ospedale gestito dai monaci: esso si trovava in gravi difficoltà finanziarie perché i fondi messi da parte “per il mantenimento di un certo numero di poveri” non bastavano più, mentre la riduzione delle spese provocava forti reclami tra i poveri degenti. Il Capitolo rispose con la nomina di tre abati vicini, incaricati di indagare sulla situazione: essi venivano autorizzati a prendere qualsiasi soluzione concreta che ritenessero opportuna.

Con il passare dei secoli, lo sviluppo delle città offriva la possibilità di un’assistenza medica sempre migliore, così che gli ospedali dei monasteri divennero sempre meno importanti; alcune abbazie, tuttavia, continuarono a gestire dei centri ospedalieri fino alla Rivoluzione Francese.

L’antica infermeria della fiorente abbazia di Orval (posta sotto il governo austriaco dopo il 1715) venne sostituita nel 1761 da una costruzione spaziosa, che presentava tre reparti: uno per i monaci professi, un altro per i fratelli conversi, e il terzo per i numerosi servi o il personale laico dell’abbazia. Essa comprendeva una cappella e una cucina, mentre l’assistenza medica era assicurata da un dottore della zona e da due infermieri assistenti. Il complesso fu progettato per rispondere alle necessità di circa 120 persone.

La fama che Orval godette come centro di assistenza medica aveva origine però dalla sua famosa farmacia, da quando ne divenne responsabile quel leggendario Fra Antonio Périn (1738-1788). Egli era medico di professione, aveva studiato a Parigi e si era reso disponibile anche al di là dei recinti del monastero. Egli coltivava un orto di erbe medicinali dove faceva spuntare e crescere quello di cui aveva bisogno, radici, erbe e fiori; se ne procurava altre, soprattutto a Liegi. Poi preparava tutto nel suo laboratorio. I suoi prodotti più famosi erano pozioni e tinture, e tra queste l’acqua di Orval”, creduta efficace per un numero straordinario di mali, sia mentali che fisici. La fama di questo fratello aumentò considerevolmente con il successo che riportò nel 1777, nella lotta contro una epidemia diffusa di febbre tifoidea. Gli affari della farmacia andavano a gonfie vele. Infatti, soltanto nel 1788 furono vendute all’esterno del monastero medicine per il valore di 5.638 fiorini, mentre ai poveri erano stati somministrati gratuitamente farmaci per un valore di 506 fiorini.

Lungo tutto il Medio Evo, l’assistenza ai poveri era notoriamente compito della Chiesa, e l’Ordine Cistercense, secondo tutte le indicazioni, accettò di assumere gran parte di quanto era necessario per soccorrere i bisognosi. La distribuzione delle elemosine aveva luogo in tutte le abbazie all’ingresso del monastero, sotto lo sguardo vigile del portinaio. A questo scopo, c’era sempre a disposizione del pane e altri generi alimentari, ma, secondo le direttive del Capitolo generale del 1185, venivano distribuiti tra i poveri anche abiti e calzature usate. Perfino uno dei critici più severi dei Cistercensi, Gerald of Wales, riconobbe la generosità che l’Ordine dimostrava nei confronti dei poveri. Egli diceva che i monaci “benché estremamente frugali, superavano tutti per la sovrabbondanza della loro carità verso i poveri e i pellegrini”. A titolo di esempio, Gerald fa riferimento all’abbazia di Margam, nel Galles, che nel 1188 inviò a Bristol una nave per fornire di granoturco “una grandissima folla di mendicanti”.

Il formulario del XIII secolo di Pontigny, che contiene una specie di campionario di documentazione per le visite regolari insisteva che il portinaio doveva sempre disporre di denaro per fare elemosina ai poveri, oltre a indumenti scartati e almeno un centinaio di pagnotte di pane che dovevano essergli consegnate ogni giorno dal forno del monastero. Lo stesso documento richiedeva che in un edificio a parte si tenessero sempre disponibili dei letti per i poveri che avessero bisogno di alloggio.

I registri di Beaulieu della fine del XIII secolo indicavano dettagliatamente il compito del portinaio quanto alla gestione delle elemosine. Sembra che l’assistenza ai poveri fosse ben organizzata e che i bisognosi sapessero in anticipo non solo il momento ma anche quale tipo di aiuto potevano attendersi. Il cibo veniva distribuito tre volte alla settimana ed ogni sera tredici poveri erano accolti per dormire nell’ospizio dell’abbazia, mentre altri tre erano trattati come ospiti dell’abate. Nella lavanda dei piedi del Giovedi Santo, si aggiungeva alle elemosine solite anche un po’di denaro. Durante la mietitura, i poveri che ne avevano le forze fisiche, erano inviati a lavorare nei campi perché si guadagnassero il pane. L’incaricato del vestiario del monastero doveva raccogliere gli abiti usati da distribuire ai poveri.

A Meaux, lungo il corso dei secoli XIII e XIV, alcuni laboratori dell’abbazia contribuivano regolarmente ad aiutare i poveri. Il responsabile della conceria doveva fornire ogni anno venti pelli di bue o di mucca, ben lavorate, per le calzature dei poveri; tessuti di lana, del valore di 18 scellini, prodotti dalla follatura del lanificio dell’abbazia, dovevano essere messi da parte per lo stesso fine, mentre un decimo del formaggio che si riceveva dal caseificio era destinato ai bisognosi.

Non sembra che il contributo dato dalle abbazie inglesi per provvedere alle necessità dei poveri sia stato eccezionale: e tuttavia nel 1535 l’abbazia di Whalley distribuì in elemosina in totale una somma sorprendente: 122 sterline, corrispondenti al 22% delle entrate dei monaci. Di questa somma, 41 sterline erano state spese per il mantenimento di 24 poveri all’interno del monastero; 63 sterline per la distribuzione settimanale di grano, e 18 sterline per elemosina a Natale e il Giovedì Santo. Quasi nello stesso periodo, l’abbazia di Furness dava assistenza a tredici poveri ed ogni settimana assicurava delle elemosine per otto vedove povere; il monastero di Stanley dava ospitalità a sette poveri; la comunità di Garendon manteneva sei persone inabili. Un documento non datato, appartenente agli archivi di Newminster, univa a una donazione l’obbligo della distribuzione annuale di elemosine a un centinaio di poveri, che i monaci avrebbero dovuto effettuare il giorno della festa di Santa Caterina, dando ad ognuno “due torte d’avena e due aringhe”.

Particolarmente famoso per la sua generosità verso i poveri era Villers: cosa resa più facile dalle molte donazioni ricevute proprio a tal fine. Durante il XIII secolo, il panificio dell’abbazia forniva 2.100 pagnotte di pane alla settimana, per la distribuzione giornaliera ai poveri, raccolti in gran numero attorno all’ingresso dei monastero. Molte donazioni che si facevano per la celebrazione di Messe negli anniversari, a Villers come altrove, comprendevano delle somme speciali che dovevano essere distribuite tra i poveri, nelle stesse circostanze. Nel XIII secolo, un benefattore dell’abbazia svizzera di Hauterive, Umberto di Fernay, aveva tenuto da parte quarantacinque lire di Losanna, con le quali i monaci avrebbero dovuto procurare del pane e formaggio da distribuire il Lunedì di Pentecoste, tra 366 persone bisognose nella città di Romont. Il re Roberto I di Scozia (1306-1329) lasciò in eredità all’abbazia di Melrose la somma annuale di 100 sterline, in parte per migliorare l’alimentazione dei monaci, e in parte perché ogni anno, nella festa di san Martino, venissero date a una ventina di poveri, che in quel giorno avrebbero condiviso la mensa dei monaci, e venti abiti completi.

In tempo di carestia o in altre emergenze, i monaci condividevano con i vicini bisognosi tutto quello che avevano. Nel 1147, l’abbazia di Morimond assicurò a tutto il vicinato di che nutrirsi, per tre mesi, fino alla successiva raccolta. Si dice che nel 1153, il monastero di Sittichenbach, in Germania, abbia salvato dalla carestia 1.800 abitanti della regione. Nel 1316, la comunità di Riddagshausen anch’essa in Germania, assicurò il sostentamento quotidiano a 400 persone salvandole dalla morte. Alcuni esempi di questo tipo sopravvissero nella memoria dei posteri come fatti eroici leggendari: perciò non sempre si può fare affidamento alle cifre di persone mantenute dai monaci. E ovvio che sia avvenuto così per Melrose, nel 1150, quando si ritenne che i monaci avessero distribuito per tre mesi il cibo quotidiano a una folla di 4.000 persone che stava morendo di fame e quasi per miracolo, ogni volta le provviste si moltiplicavano.

Nelle abbazie cistercensi, era usanza risalente a tempi immemorabili celebrare il tricenarium dei fratelli defunti: esso consisteva nel mettere da parte per trenta giorni consecutivi il cibo che sarebbe stato destinato ai fratelli scomparsi recentemente, per dare le loro porzioni a persone indigenti. Un “gran” tricenartum seguiva ogni anno la chiusura della sessione del Capitolo generale, nel giorno della festa di san Lamberto (17 Settembre): in ogni abbazia dell’Ordine, per trenta giorni si assicuravano i pasti per un certo numero di poveri. Il Giovedi Santo l’Abate lavava i piedi a dodici poveri: seguiva poi un pranzo per queste stesse persone.

Una occasione speciale per distribuire elemosine in gran scala era l’arrivo a Cîteaux degli abati che partecipavano alle sessioni annuali del Capitolo generale. In quei giorni, le strade che portavano a Cîteaux erano praticamente intasate di poveri – veri o presunti che fossero – che imploravano dagli abati l’elemosina. Verso il 1240 la folla era divenuta così indisciplinata che il Capitolo dovette proibire la distribuzione di elemosine nel giro di due miglia da Cîteaux. Nel 1260, per lo stesso motivo, si soppresse totalmente l’uso. Si sollecitarono in cambio gli abati a deporre le loro donazioni in una cassetta, collocata vicino all’entrata della sala capitolare.

Secondo tutti gli elementi di cui disponiamo, la distribuzione delle elemosine era del tutto naturale in ogni abbazia cistercense: bisognerebbe sottolineare comunque che i monaci erano profondamente rispettati, come distributori imparziali dei fondi di assistenza; si destinavano perciò ad essi numerose elargizioni o fondazioni riservate ai poveri. Per lo stesso motivo, quanto veniva distribuito nelle portinerie dei monasteri era riflesso non soltanto della carità dei monaci, ma anche della generosità dei benefattori del monastero. Si è sempre discusso quale fosse la percentuale dei beni dati in elemosina, considerando la totalità delle rendite delle abbazie. Nei secoli di maggiore prosperità delle comunità cistercensi, corrispondeva probabilmente al dieci per cento, anche se una cifra più vicina al cinque per cento sembra corrispondere a una valutazione più attendibile. Ma lungo i secoli XIV e XV, quando i monaci stessi dovettero sperimentare serie difficoltà economiche, avevano ben poco da distribuire in elemosina.

I Cistercensi del XII secolo avevano decisamente rifiutato di essere coinvolti nell’assistenza pastorale da prestare alla vicine comunità di contadini: i sacerdoti dell’Ordine, tuttavia, amministrarono sempre i sacramenti ai fratelli conversi e agli operai che lavoravano nelle grange con loro. Quando si accettarono le prime chiese per così dire “illegali”, questo non comportò necessariamente che i sacerdoti cistercensi prestassero servizio pastorale nelle parrocchie; l’abbazia era diventata soltanto la responsabile della chiesa, con l’obbligo di assumere un sacerdote secolare e versargli un salario. In alcune fondazioni, però, fin dagli inizi fu inevitabile essere coinvolti nel servizio pastorale. Già molto prima del 1201, data in cui ebbe luogo una fondazione cistercense ad opera dei monaci di Casamari, San Galgano sul Monte Sìepi, nella diocesi di Volterra, essa era stata un santuario meta di pellegrinaggi.

L’abate di Poblet, nel 1221, riceveva da Onorio III la condizione giuridica di “abate nullius”, prossima a quella episcopale: questo era dovuto alla posizione di Poblet, situato quasi sulla frontiera, e alla sua giurisdizione su un certo numero di villaggi. Il titolo comportava ampi doveri pastorali. Delle circostanze locali avevano probabilmente imposto compiti di carattere pastorale a un certo numero di abbazie, se il Capitolo generale, nel 1234, dovette ripetere energicamente che si proibiva ai monaci di prestare servizio pastorale nelle parrocchie e ordinava loro di ritornare immediatamente nelle loro abbazie. Le stesse norme vennero ripetute l’anno successivo, e si aggiungeva inoltre la clausola che le cappelle già passate sotto la responsabilità dell’abbazia dovevano essere curate da sacerdoti diocesani. Nel 1236 il Capitolo ritornò ancora sullo stesso problema, dichiarando che le abbazie che avessero già organizzato delle cappelle prima del loro inserimento nell’Ordine potevano conservarle ancora, ma gli abati avrebbero dovuto assumere dei sacerdoti secolari per la loro gestione. Si fece eccezione, però, in quello stesso statuto, per le abbazie di Les Dunes e di Ter Doest, “che entrambe hanno delle cappelle in alcune isole, in mezzo al mare”: in seguito al totale isolamento di queste chiese, i fedeli potevano far affidamento sul servizio sacerdotale dei monaci. Di conseguenza, per ciascuna cappella vennero designati tre sacerdoti cistercensi, perché prestassero servizio “al gran numero di fratelli conversi e di laici”.

Tale concessione era stata ispirata probabilmente da alcuni permessi concessi precedentemente dal papa a delle singole abbazie. Nel 1232, Gregorio IX aveva permesso ai monaci del monastero di Cwmhir, nel Galles, di amministrare i sacramenti ai loro servi e ai loro fittavoli, perché, data la posizione del monastero in una regione montuosa, nessun sacerdote secolare avrebbe potuto raggiungerli. L’abbazia di Holy Cross, in Irlanda, fondata nel 1180, eresse nelle sue terre alcune cappelle e a partire dal XIII secolo i monaci stessi prestavano servizio nelle parrocchie vicine. L’attività pastorale venne ulteriormente sviluppata quando, a seguito della crociata di Riccardo I, vennero deposte nell’abbazia delle reliquie della santa Croce: quella costruzione modesta venne trasformata quindi in uno dei santuari più frequentati di tutto il paese.

Nell’abbazia svizzera di Saint Urban, il servizio pastorale ebbe inizio verso il 1280 con l’acquisizione dei santuario di Freibach. Verso i primi anni del XVI secolo, l’abbazia possedeva diritti di patrocinio su dieci chiese parrocchiali e un certo numero di cappelle. Nella maggior parte di queste, prestava servizio il clero secolare, ma in quattro chiese più vicine all’abbazia, i monaci stessi amministravano i sacramenti ai fedeli.

Il monastero inglese di Meaux ricevette, durante il governo dell’abate Roger (1286-1310) una generosa donazione per il servizio di una cappella votiva a Ottringham. I termini della donazione esigevano servizi funebri perpetui e complessi a beneficio dei defunti della famiglia del benefattore. L’abate accettò l’elargizione e inviò alla cappella in questione sette monaci, i quali si stabilirono in una località che più tardi si chiamò “Monkgarth”. Ma tale luogo isolato venne ad essere così frequentemente coinvolto in infrazioni disciplinari gravi che i monaci dovettero ben presto essere richiamati in monastero. Lungo tutto il corso del XIV secolo alcune abbazie della regione del Reno erano talmente impegnate in servizi pastorali, che il Capitolo generale decise di intervenire. Nel 1393 l’abate di Morimond, in visita regolare, trovò che molti monaci di Camp, Altenberg e Heisterbach vivevano in parrocchie e ordinò che facessero immediatamente ritorno alle loro abbazie.

Nonostante le frequenti proteste del Capitolo, i monaci continuarono ad essere impegnati nel servizio diretto dei fedeli, soprattutto quando tali servizi erano richiesti da necessità economiche. Era questa la situazione nella Slesia, dove tutte le abbazie cistercensi erano state talmente devastate durante le guerre hussite da non essere più in grado di assicurare ai propri membri né il vitto né l’alloggio. Molti monaci potevano trovare dei mezzi sicuri di sussistenza soltanto nelle parrocchie. Nella seconda metà del XV secolo tutte le sei abbazie della Slesia fornivano personale alle parrocchie dai membri della comunità. Tra queste, Leubus e Kamenz avevano ciascuna dieci chiese.

Alla fine, nel 1489, il Capitolo generale si dovette riconciliare con quella prassi inevitabile. Anche se un nuovo statuto ribadiva ancora che i monaci non dovevano essere impegnati nella “cura d’anime”, si concedevano delle autorizzazioni per prestare servizio nelle chiese e nelle cappelle già incorporate alle abbazie.

Il paese dove il servizio pastorale giunse ad assorbire poi le energie di un gran numero di monaci-sacerdoti fu l’Austria. Già nel XIII secolo la maggior parte delle undici abbazie austriache possedevano delle chiese e nel XIV secolo godevano su di esse tutti i diritti connessi con il loro patronato. Nel 1399 Bonifacio IX permise a Zwettl di istallare dei Cistercensi come vicari perpetui nelle chiese dell’abbazia. Tale orientamento continuò e verso il XVII secolo la maggior parte delle chiese cistercensi godevano del servizio pastorale dei monaci dell’Ordine. Nel 1758, sui 317 sacerdoti della provincia austriaca, 75 erano impegnati attivamente in servizi pastorali. Verso il 1780 il numero delle parrocchie cistercensi in quel paese raggiunse 73. Tra il 1780 e il 1790, sotto la pressione del governo di Giuseppe II, l’Ordine dovette assumere in più la responsabilità di altre 45 chiese parrocchiali.

Oltre ai servizi abituali connessi con il ministero pastorale, dal XIII secolo in poi, molte abbazie cistercensi formarono e guidarono numerose pie confraternite o società religiose. Tale prassi ebbe inizio con una lista di benefattori ai quali si concedeva di partecipare ai benefici spirituali dell’Ordine, ad esempio alle Messe di anniversario e agli uffici speciali per i defunti. Nel XIII secolo, Himmerod contava due liste di nomi: una raccoglieva i benefattori più importanti, raggruppati in una “fraternità a pieno titolo”, e la seconda elencava i benefattori minori, che formavano una “fraternità comune”. All’inizio dell’uno come dell’altro elenco figuravano principalmente i membri della nobiltà, ma alla fine la composizione dì entrambe assunse un carattere sempre più borghese. Far parte della “fraternità a pieno titolo” significava trasferire all’abbazia tutti i beni appartenenti al benefattore, il quale ne conservava l’usufrutto, vita natural durante. Questi doveva promettere di non sposarsi di nuovo, se fosse morta la sua sposa o, se fosse stato da solo, doveva continuare a vivere nel celibato. Dopo il 1440 esisteva a Himmerod una “Società del Purgatorio” (Tótenbruderschaft): i membri che ne facevano parte ricevevano l’assicurazione che alla loro morte sarebbero state celebrate delle Messe di suffragio, ed essi avrebbero avuto parte ai meriti acquisiti dalle preghiere dei monaci. I partecipanti celebravano pratiche di pietà in una cappella speciale, sotto la guida di un “maestro”, che era un monaco. Ad essi era affidata la decorazione degli altari e fornivano una certa quantità di candele. Nello stesso periodo, nell’abbazia di Camp era stata organizzata una associazione analoga, forse ancora più numerosa e più attiva.

In molte abbazie, il numero delle Messe d’anniversario aumentò fino a raggiungere cifre incredibili, che imponevano un grave onere ai sacerdoti del monastero. Nel 1449 il Capitolo generale proibì che si accettassero ulteriormente Messe perpetue negli anniversari, senza l’autorizzazione del Capitolo generale, “perché i monasteri non siano sovraccarichi di impegni e le anime dei defunti non ne siano in qualche modo defraudate”.

Nel 1445, in un campo che apparteneva all’abbazia di Langheim, in Baviera, un pastore ebbe una visione: 14 persone circondavano, adoranti, il Bambino Gesù. Tre anni dopo venne edificato in quel luogo un santuario, in onore dei “Quattordici Santi (Vierzehnheiligen). La comunità dei Cistercensi fu presto coinvolta nella devozione che si andava rapidamente diffondendo: essa venne abbracciata da alcune altre comunità dell’Ordine, tra le quali Raitenhaslach, Waldsassen, Kamenz, Neuzelle, Heinrichau e Grüssau. In queste abbazie, dietro richiesta del popolo, vennero dedicate delle cappelle e degli altari ai quattordici santi e vennero celebrate delle Messe in loro onore. Durante la Guerra dei Contadini del 1525, furono distrutte sia Langheim che Vierzehnheiligen, ma il santuario ridiventò famoso nel XVII secolo. La magnifica chiesa barocca, meta di pellegrinaggi, venne disegnata dal grande artista Balthasar Neumann e consacrata nel 1772; essa attesta ancora oggi la forza di quel movimento di devozione popolare patrocinato dai Cistercensi.

L’abbazia svizzera di Saint Urban fu anch’essa un altro centro di devozione popolare. Nel 1231 veniva organizzata per dei benefattori la Confraternita di san Bernardo. Quando poi venne acquistato Freibach, attorno a quel santuario popolare trovarono il loro punto di riferimento due pii sodalizi, uno dei quali rendeva onore alla Beata Vergine Maria, e l’altro a sant’Anna. Nello stesso luogo ebbe inizio nel 1523 la Fraternità del Rosario; nel XVII secolo poi fu fondata la Società dello Scapolare. Freibach fu anche la sede di una pia confraternita fondata dalla corporazione dei fabbri della regione di Emmental e Oberaargau. Nella prima metà del XVI secolo partecipavano a un pellegrinaggio annuale a Freibach circa una settantina di maestri della corporazione.

Nel 1226 un’altra grande abbazia bavarese, Fürstenfeld, ricevette il villaggio di Inchenhofen, e annesso a questo il santuario dedicato a san Leonardo. Dopo il 1283, ufficiavano in quella chiesa sacerdoti della comunità; il santuario conobbe una popolarità sempre crescente nel corso del XIV secolo. Nel 1401 Bonifacio IX autorizzò 10 Cistercensi di Fürstenfeld ad amministrare il sacramento della penitenza in quel santuario. La stessa abbazia eresse nel 1414 un’altra chiesa in onore di san Willibald, mentre nella parrocchia appartenente all’abbazia veniva promossa la venerazione della Santa Croce.

Lungo il corso dei secoli XV e XVI, il Capitolo generale accettò le pie confraternite, popolari in Francia come in Germania. Nel 1491 il Capitolo concesse la propria benedizione alla Confraternita di san Sebastiano, promossa dall’abate di Theuley, vicino a Besançon, promettendo ai partecipanti che avrebbero condiviso i meriti delle preghiere dei monaci e delle opere buone compiute in tutte le abbazie dell’Ordine. Benefici analoghi furono concessi nel 1494 alla Confraternita delle Sette Gioie della Beata Vergine, organizzata da La Ferté. Nel 1520 veniva accolta con favore anche una pia società che presso l’abbazia tedesca di Schönthal onorava santa Margherita, sant’Antonio e san Leonardo.

Durante il governo dell’abate Nicolas Wydenbosch (Salicetus), il monastero di Baumgarten, nell’Alsazia, divenne un centro fiorente di devozione popolare. Dietro richiesta dell’abate, il Capitolo generale del 1488 concesse a tutti i membri, vivi e defunti, della Confraternita dell’Immacolata Concezione di avere parte ai tesori spirituali dell’Ordine. Molti membri della Confraternita appartenevano al circolo dei cittadini devoti della città di Berna, in Svizzera, dove era nato l’abate.

Le riforme monastiche che ebbero luogo nel XVII secolo, e tra di esse anche la Stretta Osservanza, guardavano un po’ di traverso i monaci impegnati in attività pastorali fuori dal monastero. Il Capitolo generale del 1672 faceva eco alla loro disapprovazione, e si pensò di presentare ricorso alla Santa Sede, per chiedere alle autorità ecclesiastiche di non conferire a dei Cistercensi nessun titolo o nessuna posizione che comportasse un ministero pastorale. Il Capitolo del 1683 deliberò che venisse promulgata la stessa decisione e propose di richiamare i Cistercensi impegnati nel servizio delle parrocchie. Però tali compiti erano diventati a quell’epoca parte così integrante della tradizione di molte abbazie, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, che non era possibile attendersi nessun cambiamento degno di nota.

La tendenza che il Barocco presentava verso la devozione popolare sottolineava ancora di più la formazione di pie società e l’organizzazione di pellegrinaggi: da questo risultò un incremento ulteriore dell’attività pastorale dei Cistercensi. Durante l’abbaziato di Roberto di Namur (1647-1652) i monaci di Villers si impegnarono ad assumere la direzione spirituale di tredici monasteri femminili affiliati all’abbazia. Tali compiti pastorali, così come altre forme analoghe, esigevano fino alla fine del XVIII secolo il servizio di circa venticinque monaci. Grazie all’influenza esercitata dai monaci dell’abbazia bavarese di Aldersbach, il culto della Beata Vergine Maria si diffuse in quattro santuari, diventati particolarmente popolari nel XVII e nel XVIII secolo (si trattava di Kösslarn, Rottahlmünster, Sammerei, Frauentödling).

Nelle terre degli Asburgo, divenne molto popolare la devozione a san Giuseppe, perché era patrono della famiglia imperiale. Nel 1653 fu fondata, sotto gli auspici dell’abbazia austriaca di Lilienfeld, la Fraternità di san Giuseppe: fino alla soppressione, avvenuta nel 1781, essa godette di una grandissima fama e popolarità. Tra i suoi membri si contavano non solo masse di umili contadini e innumerevoli devoti abitanti nelle città, ma anche molti membri della famiglia degli Asburgo e dei rappresentanti autorevoli della gerarchia. Verso il 1755, il registro della Fraternità contava 215.000 nomi.

Simile popolarità godeva anche la Confraternita di san Giuseppe, fondata nel 1669 dal monastero di Grüssau, nella Slesia. Sulla lista dei partecipanti, figuravano sia persone singole che comunità, tanto che verso la fine del secolo erano iscritti nei registri dell’associazione non meno di 43.000 nomi. I regolamenti prescrivevano preghiere quotidiane a san Giuseppe, la Santa Comunione Mensile e l’adempimento di opere di carità in favore degli infermi e dei poveri.

Gli statuti più antichi dei Capitolo generale avevano escluso dalle abbazie maschili i ragazzi, mentre nei monasteri femminili era prassi largamente diffusa accogliere ragazze per la loro formazione. Sembra comunque che i laboratori di molte fiorenti abbazie attraessero un certo numero di bambini, che non avevano nessuna intenzione di diventare monaci, ma erano interessati ad imparare dai fratelli uno dei loro mestieri specifici. La cosa era tollerata perfino nel XII secolo, e il Capitolo del 1195 insisteva soltanto sul fatto che i giovani ammessi quali apprendisti “nei laboratori dei tessitori, dei sarti, e dei conciatori” dovevano avere almeno dodici anni.

Il Capitolo del 1205 inveì contro un certo numero di abati della Friesland – dei quali non era dato il nome – “perché avevano ammesso dei ragazzi minori di quindici anni, per istruirli. Secondo le rigide norme dell’Ordine (tali abati) meriterebbero di essere deposti; nondimeno, supponendo che essi non abbiano ancora ricevuto le decisioni pertinenti, sono, per il momento, risparmiati”. La stessa ammonizione venne rivolta anche all’abate di Ile-en-Barrois, vicino a Toul, e venne ripetuta “irrevocabilmente” nel 1206. Una di tali abbazie “colpevoli” era probabilmente Adwert, nella regione occidentale della Friesland, che teneva una “Scuola Rossa” (Schola rubea) per ragazzi, nel XIV secolo. Le iscrizioni dovevano essere numerose, perché la peste nera del 1350 si portò via ventinove studenti. All’epoca della Riforma, questa stessa istituzione godeva di una buona reputazione, in tutto il paese.

Secondo alcune fonti anche altri monasteri nei Paesi Bassi, quali ad esempio Nizelle, Boneffe e Moulins, gestivano delle scuole prima della Riforma Protestante.

Nel XV secolo l’abbazia svizzera di Saint Urban divenne centro famoso di studi umanistici. L’abate Nicolas von Hollstein (1441-1480), originario di Basilea, fondò una “scuola dell’abbazia”  che raggiunse il suo apogeo sotto l’abate Sebastian Seemann (1534-1557), epoca in cui disponeva dei migliori professori del paese. Nel 1579, l’abate generale Nicholas Boucherat trovava nell’abbazia “dodici adolescenti, che venivano istruiti nelle lettere”.

In Inghilterra, prima della soppressione, Furness gestiva una scuola di grammatica e di canto (schola cantorum) per ragazzi accolti come collegiali nel monastero stesso. Biddlesden accoglieva nove ragazzi, a quanto sembra in condizioni analoghe. Newminster aveva quattro di questi “ragazzi di coro”, mentre Woburn ospitava tre ragazzi insieme al loro maestro. Nel monastero di Ford Abbey, un certo William Tyler, maestro di lettere, godeva di vitto e alloggio così come di una buona rendita annua dietro lezioni di grammatica date ai ragazzi che vivevano nell’abbazia, e conferenze di Sacra Scrittura date ai monaci.

L’abbazia di Zwettl, in Austria fondava nel XV secolo un coro di voci bianche. L’istituzione sopravvisse alla Riforma e alle guerre di religione, e durante l’abbaziato di Bernhard Link (1646-1671) il numero dei ragazzi che ricevevano liberamente vitto, alloggio e istruzione era salito a trenta. La tradizione ha continuato a sussistere fino ad oggi: i “Zwettler Sängerknaben” godono a buon diritto di fama internazionale, per le loro qualità eccezionali.

Anteriormente al XVIII secolo, era sempre stato una eccezione che i Cistercensi tenessero degli Istituti Educativi. Ma sotto l’impatto della filosofia utilitaristica dell’Illuminismo, l’atteggiamento si trasformò: dalla severità generale si passò ad un interesse attivo. L’abbazia di Rauden, nella Slesia, sotto lo sguardo compiaciuto di Federico II, fondò nel 1744 un seminario e una scuola di latino. La maggior parte degli studenti vivevano nel monastero come in un collegio: la formazione per il sacerdozio era la preoccupazione principale dei monaci. Prima della soppressione dell’abbazia nel 1810, i registri della scuola contavano 2.000 studenti, dei quali circa 500 diventarono sacerdoti. Istituti simili erano molto comuni anche in altre abbazie tedesche.

Quando nel 1773 venne abolita la Compagnia di Gesù, tale evento costituì per i Cistercensi una forte sollecitazione a rilevare le scuole lasciate dai Gesuiti. L’abbazia bavarese di Gotteszell, che già prima di tale data gestiva un piccolo istituto per l’educazione, ricevette la direzione del gymnasium di Burghause, che era stato dei Gesuiti. La stessa sfida indusse alcune abbazie situate nell’impero degli Asburgo a dedicarsi all’istruzione: questa divenne, lungo il XIX secolo, l’occupazione predominante per la maggior parte dei membri di quelle comunità.

L’attività bancaria, servizio sociale abbastanza insolito, fu praticato da molte abbazie cistercensi nel Medio Evo. La forma più comune che assumeva tale attività era la custodia di danaro o di oggetti preziosi che dei laici depositavano presso i monaci. I documenti del Capitolo generale non sollevavano delle obiezioni, ma ben presto si avvertì la necessità di fissare dei regolamenti e dei limiti alle responsabilità dei monaci. Uno statuto del 1183 decretò che le somme superiori a 100 solidi potevano essere accettate solo davanti a tre testimoni. Per garantire una certa sicurezza dei depositi, era necessario prendere tutte le precauzioni: comunque in caso di smarrimento, i monaci non potevano essere ritenuti responsabili. Secondo un altro statuto approvato nel 1195 i monaci o i conversi che maneggiavano in modo sconveniente tali depositi, dovevano essere espulsi.

Il fatto che le somme depositate venivano spesso reinvestite sotto forma di prestiti o amministrate dai monaci stessi, riflette il cambiamento delle condizioni economiche del periodo. Ma tali operazioni vennero proibite tassativamente dal Capitolo del 1209, a meno che non fossero state autorizzate dalla persona stessa che aveva lasciato il danaro in deposito.

La storia alterna di molte abbazie della regione del Galles, può fornire alcuni esempi concreti. I monasteri di Dore e di Margam erano molto coinvolti in operazioni bancarie. Nel 1187 un certo Ugo di Hereford prese in prestito una forte somma come cauzione per pagare il suo riscatto. In questi casi, come in altri simili, i monaci esigevano dei pegni, per esempio dei gioielli, fino a che la somma non fosse rimborsata. Tutte e due le abbazie nel XIV secolo riscuotevano le imposte, ricevevano e custodivano delle decime, a nome sia del clero che del Tesoriere del Re. Nel 1328-29 la somma raccolta e custodita da Dore fu di 700 sterline, spese poi per il mantenimento della Regina Isabella, madre di Edoardo III. D’altra parte, nel 1320, Margam chiese di essere esonerata da tali responsabilità, perché l’abbazia non aveva la possibilità di garantire la custodia del denaro.

Tali servizi presentavano dei pericoli e degli inconvenienti. In Inghilterra, sotto Edoardo II (1307-1327) i monaci di Stoneleigh accettarono di custodire delle grosse somme per conto della ricca famiglia dei Despensers, la quale godeva di alta stima presso il Re. Ma la fazione dei loro nemici, guidata dal Conte di Hereford, venne a sapere di questi affari, fece irruzione nell’abbazia e ne.phportò 1.000 sterline, oltre a un valore equivalente in oro e lamine d’argento.

L’abbazia di Poblet, nella Catalogna, si trovò spesso ad essere banchiere del Re. Il monastero cominciò a dare in prestito ai suoi generosi patroni, i Re di Aragona, grandi somme di denaro, fin dagli anni intorno al 1170. Questi crediti finanziavano dapprima le guerre contro i Mori, ma alcuni decenni dopo, nel XIII secolo, Giacomo I (1213-1276) chiese un prestito da Poblet quando stava per attaccare Maiorca e Valencia. Nel 1285 l’abbazia diede a Pedro III 40.000 solidi di Barcellona, per l’organizzazione di difese contro una supposta invasione di Francesi.

Per quasi un secolo, a partire dal 1257, San Galgano, in Italia, forni dei fratelli conversi quali controllori dell’amministrazione della città di Siena. I registri dei conti, tuttora esistenti, riccamente miniati, vennero decorati frequentemente con le figure dei monaci, rivestiti dei loro cappucci.

Quali amministratori di grandi estensioni terriere nell’epoca feudale, gli abati cistercensi dovettero sottomettersi spesso all’onere di amministrare la giustizia nei casi in cui erano coinvolti i loro sudditi. La giurisdizione penale sui monaci e sui fratelli apparteneva sempre all’abate, e il Capitolo generale si dimostrò risoluto difensore di tale privilegio. D’altra parte, lo stesso Capitolo regolarmente si opponeva a che gli abati esercitassero una giurisdizione sui laici, anche quando questi fossero dipendenti dell’abbazia. Il Capitolo del 1206 dichiarò perentoriamente che “nessun (abate) può esercitare una giurisdizione secolare attraverso monaci o fratelli, perché tali incidenti recano grave scandalo a tutto l’Ordine”. Presumibilmente, era “l’avvocato” civile o episcopale dell’abbazia che amministrava la giustizia penale sui laici, sottoposti alla giurisdizione delle abbazie cistercensi.

Ma là dove le grange di un tempo si erano trasformate in villaggi abitati da affittuari laici, tale processo rendeva alquanto problematica la rinuncia totale dell’abate ad amministrare su di essi la giurisdizione corrispondente. Il Capitolo generale del 1240 si pronunciò solo sui casi che comportavano la pena capitale, quando affermava che “nessun (abate) è autorizzato ad esercitare una giurisdizione che comporta versamento di sangue tramite monaci o fratelli; dobbiamo rivolgerci alla giustizia secolare per poter superare le minacce dei ladri e dei malfattori”.

Alla fine e, inevitabilmente, gli abati diventarono responsabili del mantenimento di corti di giustizia feudali, anche se colui che presiedeva, in casi specifici, era un ufficiale giudiziario o un commissario specificamente incaricato. La giurisdizione di alcune abbazie più importanti, per esempio Pontigny, includeva anche la possibilità di infliggere pene capitali, e, a partire dal XV secolo, la pena di morte venne largamente applicata. Anche l’abbazia di Tintern, nel Galles, aveva il diritto di condannare “alla forca e di giudicare per la vita o per la morte”. Infatti, verso il 1200, Walter Map, per muovere critiche contro l’abbazia, ripeteva delle voci a proposito di un uomo che i monaci “avevano impiccato e sepolto nella sabbia” per averlo sorpreso mentre rubava le loro mele. L’abbazia di Basingwerk teneva in, esposizione una berlina, un carro per i condannati a morte ed altri strumenti di punizione, anche se la pena inflitta più frequentemente era la multa.

Nel 1348 un privilegio reale confermava alla abbazia irlandese di Mellifont il diritto di esercitare piena giurisdizione penale, compresa la pena di morte, all’interno del vasto ambito sottoposto alla giurisdizione dell’abbazia. Ancora in Irlanda, l’abate di Holy Cross era considerato “Conte” della Contea della Holy Cross. Il re Giovanni riconosceva il rango ufficiale dell’abate che, infatti, era spesso invitato a partecipare alle sedute del Parlamento. Ogni conte aveva diritto a due corti di giustizia: la “corte del re” che dirimeva i crimini comuni, mentre la “corte del conte”, in questo caso la corte dell’abate, aveva diritto di giurisdizione civile su tutte le persone che vivevano all’interno della Contea della Croce. La giurisdizione civile dell’abate di Holy Cross rimase fatto incontestato fino alla soppressione, che ebbe luogo sotto Enrico VIII.

Verso la fine del XIV secolo, l’abate di Salem, nella Svevia, esercitava l’autorità giuridica su nove villaggi circostanti. Inizialmente, la sua giurisdizione poteva essere esercitata solo su crimini minori, mentre i “quattro delitti maggiori”, assassinio, rapina, incendio doloso e furto, spettavano di diritto alla corte dei conti di Heiligenberg. Ma nello stesso periodo alcune abbazie tedesche, per esempio Waldsassen e Doberan, avevano diritto di esercitare pienamente ‘Talta giustizìa”, comprese le condanne a morte. L’autorità di Salem non si limitava soltanto alla giustizia penale. L’abate aveva l’autorità di promulgare ordini, regolamenti e proibizioni per i villaggi sottoposti alla sua giurisdizione, soprattutto in materia di arti e mestieri, commercio e i mercati locali. Nel 1470 l’imperatore Federico III diede all’abbazia l’autorizzazione di riscuotere tasse e imposte dai sudditi, ed anche di esigere prestazioni di lavoro e di servizio militare. Il ruolo svolto da Salem a livello governativo era fondato in gran parte sulla condizione di “abbazia imperiale” (Reichsabtei) concessa al monastero dall’imperatore Carlo IV nel 1354. Grazie a tale privilegio l’abbazia veniva sottomessa all’autorità immediata dell’imperatore e l’abate di Salem aveva gli stessi diritti dei principi territoriali. Il processo verso l’indipendenza nell’amministrazione raggiungeva il punto più alto dei 1637, quando venne trasferita all’abbazia anche la giurisdizione sui crimini maggiori.

Non sarebbe forse necessario sottolineare che il rapporto tra le abbazie cistercensi e la società che le circondava non era priva di tensione e, talora, di ostilità. Al dì là della fondatezza di accuse specifiche, la rapida diffusione dell’Ordine, di per sé, faceva nascere critiche acerbe da parte di tutti coloro che si sentivano minacciati, o risentivano anche soltanto l’influenza negativa, a seguito del successo dei monaci. I Cistercensi continuarono ad acquistare terre durante tutto il XIII secolo, anche se ciò avveniva con ritmo più lento. Ma parallelamente, cresceva in modo considerevole la popolazione rurale, e questo, a sua volta, dava origine ad un crescente bisogno di terre. I pochi terreni disponibili aumentavano di valore e molti giacevano nella stretta presa della “mano morta” delle grandi abbazie: da ciò doveva inevitabilmente nascere la disapprovazione dei contemporanei. L’immagine delle proprietà monastiche, largamente adagiate in mezzo a un terreno che andava contraendosi, più di qualsiasi altra realtà, era responsabile di una certa varietà di accuse mosse contro i Cistercensi lungo il XIII secolo.

La prima ondata di ostilità venne sollevata dalla gelosia dei Monaci Neri e di altri istituti religiosi più antichi; ad essi si aggiunsero, in seguito i vescovi che levavano obiezioni contro l’esenzione e le immunità fiscali dei monaci, sempre in aumento. Da ultimo, molte abbazie cistercensi si videro circondate da grandi proprietà appartenenti a dei laici: i loro potenti padroni ricorrevano ad ogni espediente per ridurre ogni ulteriore espansione dei monaci.

Oltre all’antico antagonismo esistente tra i Monaci Bianchi e Cluny, fin dal 1130 un canonico della cattedrale di Chartres, Payen Bolotin, muoveva un attacco terribile contro tutti i riformatori monastici, ma soprattutto a coloro che “portavano l’abito bianco”. Il suo lavoro consisteva in un poema satirico, che si permetteva di utilizzare tutte le libertà permesse dal genere letterario per sollevare denunce indiscriminate sull’avarizia dei monaci, la loro ipocrisia, l’autoesaltazione piena di vanagloria e il piacere vano di seguire le novità. Tutti questi vizi, asseriva il canonico pieno di collera, avevano aumentato la confusione esistente nella Chiesa, fino al punto da essere inclini a considerare i nuovi monaci come i falsi profeti degli ultimi tempi.

All’esenzione dal pagamento delle decime si affiancò l’acquisizione vera e propria delle chiese: le pretese nei confronti dell’esenzione ben presto guastarono le relazioni un tempo amichevoli delle abbazie cistercensi con i vescovi vicini. Le critiche mosse a viva voce dalla gerarchia trovarono a Roma una forte risonanza, ed anche amici così sinceri dell’Ordine, quale era ad esempio Alessandro III, non esitarono ad usare un linguaggio severo per ricordare al Capitolo generale il compito di vigilare sull’osservanza degli ideali primitivi di Cîteaux.

Una lettera di Innocenzo III al Capitolo generale, datata al 1214, contiene il catalogo più completo delle accuse sollevate a quel tempo contro l’Ordine: molte chiese parrocchiali erano state mandate in rovina a causa del non pagamento delle decime; gli abati, usurpatori di terre, avevano ridotto i vicini a vivere in una tale miseria, che erano costretti a vendere ai monaci le loro proprietà; l’Ordine, nonostante la propria legislazione, si era dato ad acquistare prodotti vari per rivenderli a prezzo più alto; i monasteri, contrariamente agli ideali che professavano, avevano accettato delle chiese e si erano impegnati in attività pastorali; e, da ultimo, i ricchi potevano comperare il diritto di essere sepolti nelle chiese cistercensi. Tutte queste trasgressioni, affermava il Papa, “erano contro gli statuti iniziali del vostro ordine: voi li avete rilassati a tal punto in questi e in altri campi, che si può temere l’imminente rovina del vostro ordine se non li restaurate irrimediatamente nella loro debita integrità”.

Il Capitolo generale reagi alle accuse con una serie di norme e misure restrittive, ma le critiche del clero non potevano essere placate solo con una mera dichiarazione di buone intenzioni. Quasi un secolo dopo (1284) Mons. John Pecham, Arcivescovo di Canterbury, francescano e notoriamente avversario dei monaci, protestava duramente davanti a Edoardo I contro il trasferimento di Aberconway a Maenan, affermando che: “il parroco del luogo, con moltissima altra gente, prova un grande orrore a pensare all’approssimarsi di detti monaci. Anche se è della brava gente, sono – a Dio piacendo – comunque i vicini peggiori che prelati o parroci potrebbero avere. Perché là dove mettono piede, essi distruggono villaggi, sottraggono decime e riducono con i loro privilegi tutto il potere della gerarchia”.

A seguito delle accuse del clero l’Ordine, pur continuando ad espandersi vigorosamente non poté non risentire una perdita considerevole del proprio prestigio: i chierici non occupavano alti ranghi ma contavano molto nella creazione dell’opinione pubblica. Essi facevano parte di un nuovo genere di propagandisti, ben istruiti e versatili, e non esitavano ad applicare le loro qualità letterarie, educate alla scuola di Orazio, Giovenale e Marziale, per cercare di raggiungere i propri vantaggi, nel modo migliore, attaccando i loro nemici veri o presunti. Il più famoso di essi fu certamente Gerald of Wale, morto nel 1223, critico acerbo dei monaci. Era stato frequentemente ospite degli abati del Galles, ma si era convinto che non gli erano stati prestati i debiti riguardi e per ripicca compose degli aneddoti denigratori su di loro. Cinque dei suoi bersagli furono dei Cistercensi. Gerald non era cieco nei confronti dei meriti dell’Ordine, ma riferiva con entusiasmo le accuse di avarizia, discredito gettato abitualmente da quanti competevano inutilmente con i monaci, parchi e lavoratori. Egli riteneva che i cistercensi francesi avessero conservato con maggiore fedeltà lo spirito iniziale dell’Ordine, più dei loro confratelli inglesi: “il cui abito è diventato nero come la fuliggine a causa delle macchie che resistono all’arte dei follatori e alla forza della liscivia più corrosiva”.

Contemporaneo e compatriota di Gerald fu Walter Map, morto nel 1210: egli nutriva una forte avversione per i Cistercensi, soprattutto perché era stato offeso dai monaci di Flaxley. Anch’egli accusava l’Ordine di essere caduto in una avarizia vergognosa, ma le sue accuse divennero molto più nocive perché Walter era vicino al circolo del seguito privato di Enrico II. All’accusa di cupidigia, che tutto contaminava, egli ne aggiungeva altre, ad esempio la crudeltà nei confronti degli abitanti dei villaggi, distrutti dai monaci e la falsificazione dei documenti ovunque i monaci abusassero delle proprietà legittime degli altri. Su di lui non aveva lasciato nessuna impressione il lavoro duro e la vita semplice dei Cistercensi; affermava invece che gli abitanti delle regioni montagnose del Galles vivevano una sorte ben più dura e laboriosa.

Un terzo contemporaneo, Nigel Wireker, morto verso il 1207, monaco di Christ Church, fu autore di una versione più moderata della serie di tali critiche nella sua opera satirica Lo specchio degli Stolti (Speculum Stultorum). Egli si dichiarava disposto a riconoscere l’operosità e la frugalità dei Monaci bianchi, ma voleva punirli per la loro avarizia, la loro intolleranza verso i vicini, per il loro non accontentarsi mai dell’abbondanza di beni. Come i suoi colleghi, egli si burlava senza stancarsi mai dei fratelli cistercensi che non indossavano i calzoni, divenendo così facili bersagli per divertimenti volgari.

Sosia dei satirici inglesi, un francese, Guiot de Provins, scrivendo verso il 1205, levava proteste contro l’espansione illimitata dei Cistercensi, nelle cui terre branchi di porci pascolavano sopra sepolcri dissacrati, e dove i vicini impazzivano per il tintinnio incessante delle campanelle delle mucche. Egli guardava ai monaci come a vagabondi ipocriti e falsi eremiti.

Tale critica corrosiva non ebbe di per sé conseguenze tangibili, ma l’Ordine ne fu profondamente sconvolto. Verso il 1230 Stefano Lexington metteva in guardia i suoi monaci dall’ostentare i loro beni: “perché in questo periodo il nostro Ordine ha molti e scaltri detrattori”. Il Capitolo generale del 1248 faceva risuonare lo stesso campanello d’allarme: “perché in questo periodo di crescente malizia, il nostro Ordine si trova esposto, in molte parti del mondo, a frequenti vessazioni, a causa dei nostri privilegi e delle nostre immunità, è necessario, perciò, che i nostri fratelli si sostengano a vicenda, così che (il nostro Ordine) possa sopravvivere, come una città forte”.

Parlare dell’Ordine come di una fortezza non era, purtroppo, solo un modo di dire. Gli anni che seguirono il IV Concilio del Laterano (1215) misero a dura prova i cistercensi francesi. Le proprietà delle abbazie furono senza tregua bersaglio dell’animosità dei vicini potenti, sia laici che ecclesiastici. Dispute sulla giurisdizione degenerarono spesso in incursioni armate, soprattutto nella regione nord-est del paese. Tra gli altri monasteri, perseguitati allo stesso modo, l’abbazia di Longpont nel 1220 venne più volte assalita da bande distruttrici prezzolate dal Vescovo di Soissons. Lo stesso Cîteaux ebbe molto a soffrire dai vicini in preda alla gelosia: le difficoltà economiche dell’abbazia furono in gran parte il risultato delle scorrerie che devastarono le terre del monastero. Si faceva abitualmente ricorso alla protezione del papa: da questi interventi nascevano alcune ammonizioni, investigazioni e talora delle scomuniche rivolte contro i colpevoli: ma tutti questi provvedimenti restavano in gran misura senza effetto.

L’abbazia di Poblet, nella Catalogna, aveva goduto molto del favore della famiglia reale degli Aragona ed era stata sempre sostenuta dai papi: verso la fine del secolo XII aveva accumulato vaste terre ma, per questo stesso motivo, aveva suscitato la gelosia dei vescovi e dei nobili vicini, i quali, con il successo della Reconquista si stringevano in una competizione intensa per appropriarsi del bottino. Si moltiplicarono dispute di confini, atti di vandalismo e di violenza. I monaci trovavano grande appoggio presso le corti dei Re e dei papi, ma le garanzie offerte da documenti scritti erano ben povero compenso di fronte a una schiera crescente di aperti oppositori. Alla fine, per evitare una pessima pubblicità e contese sia costose che, per lo più, inconcludenti, i monaci divennero sempre più propensi a giungere ad accordi attraverso trattative private. Verso la metà del XIII secolo, liquidazioni o pagamenti per sistemare le rivendicazioni degli avversari erano procedimenti del tutto normali. Il consolidamento delle terre del monastero, disseminate in varie parti, venne portato a compimento grazie all’acquisto o allo scambio di proprietà.

Nel frattempo, non ci sono indizi che attestano l’aggressività delle masse rurali contro l’Ordine. Disordini popolari toccarono le abbazie solo sporadicamente, soprattutto in rapporto alle epidemie della peste nera. In Inghilterra, attacchi di questo genere si verificarono dopo la promulgazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1351, che rifiutava di accogliere le istanze per un aumento di salari in favore dei contadini, già molto poveri. Una situazione analoga costituiva il sottofondo della agitazione verificatasi tra gli schiavi di Waghen un piccolo villaggio dell’abbazia di Meaux. Durante l’abbaziato di Robert Beverley (13571367) gli abitanti del villaggio cercarono di liberarsi totalmente dalla soggezione che dovevano all’abbazia, rivendicando che i loro avi appartenevano a una grande proprietà terriera della corona. L’abbazia, dopo molte contestazioni, vinse la causa, ma è chiaro che ciò avvenne a spese della popolarità dei monaci. È altrettanto chiaro che il fatto di riscuotere tasse a favore di terzi contribuì ulteriormente a compromettere la immagine degli abati.

Fu la Riforma a mettere in pericolo, per la prima volta, gli ideali veri e propri della vita monastica. La critica sarcastica che i riformatori ebbero contro i monaci, venne seguita dalla secolarizzazione generale delle abbazie, là dove prevaleva il nuovo credo. La fine delle lunghe guerre di religione trovò l’Ordine Cistercense profondamente decimato, ma non privo di una sorprendente e vigorosa capacità di recupero. Il successo della ripresa deve essere attribuito in gran parte all’improvviso favore popolare motivato sia dal riaccendersi di un austero ascetismo, sia dall’aumento del ministero pastorale che prevalse soprattutto nelle terre della Germania.

La campagna antimonastica dei filosofi “illuminati” che aveva preceduto la Rivoluzione Francese non godette dell’appoggio diffuso della gente del popolo, ma riaccese la gelosia sempre latente che esisteva nel clero, sia secolare che regolare. La gerarchia francese assisteva senza reagire allo smembramento delle antiche istituzioni monastiche, mentre in tutto il continente l’ondata dilagante della secolarizzazione era manipolata da forze di interesse economico e politico, noncuranti dell’attaccamento ancora evidente che si dimostrava per la maggior parte delle fiorenti e grandi abbazie.

Non sarebbe mai stato possibile, del resto, giungere alla ricostruzione dell’Ordine senza una tale simpatia ben radicata e diffusa. Il numero dei membri non superò le cifre dei tempi precedenti la Rivoluzione, ma in tutti gli altri.phpetti l’alto livello dell’Ordine, in entrambe le Osservanze, era il riflesso di un sostegno della pubblica opinione che superava di molto, quanto a sincerità e spontaneità disinteressata, l’atmosfera stantia dell’Ancien Règime. Le vocazioni divennero scelta totalmente libera, numerose perfino, attratte dall’Ordine da nessun altro motivo che dalla devozione sincera. Il peso ingombrante di proprietà enormi e rovinose era scomparso e i monaci potevano concentrare tutte le loro energie nel conseguimento dei loro ideali religiosi. Non c’è dubbio che la disciplina monastica abbracciata dalla Stretta Osservanza superava qualsiasi livello sperimentato dall’Ordine dopo i primi decenni del XII secolo. Il duro servizio dei membri della Comune Osservanza, consacrati al ministero disinteressato a favore degli ambienti circostanti attraverso le fatiche degli studiosi, l’insegnamento e la cura pastorale, assicuravano loro una reputazione invidiabile per i loro meriti.

Finché rimarrà una sana interazione tra i Cistercensi e la società, finché l’Ordine sarà in grado di offrire un esempio eloquente degli ideali della perfezione cristiana, sarà sempre possibile aggiungere un nuovo capitolo alla storia dei Monaci Bianchi.

 

Bibliografia

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L.J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, XXIV, Certosa di Pavia, 1989.

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