I Cistercensi

Storia dell’Ordine cistercense

La fine della prosperità

Gli storici delle generazioni passate, quando scrivevano sulle condizioni degli Ordini monastici prima della riforma, preferivano usare termini come declino, decadenza, corruzione, sostenendo tacitamente con questo che gli Ordini di cui parlavano erano responsabili della rovina in cui si trovavano a causa della negligenza, della pigrizia, del rilassamento cosciente in cui erano incorsi, allontanandosi dai modelli iniziali della propria disciplina. I sintomi del declino dei Cistercensi, se declino è la parola più esatta, erano tutti estremamente ovvii. I problemi disciplinari, anche se rapidamente in aumento e oggetto della preoccupazione del Capitolo generale, non erano per nulla la prova più drammatica della gravità dei problemi. I fattori più tangibili che portano a formulare un giudizio sfavorevole sulle condizioni dell’Ordine nel XIV e XV secolo sono l’arrestarsi dell’espansione, la diminuzione delle vocazioni e la scomparsa dei fratelli conversi.

Tra il 1250 e il 1300, l’Ordine fondava cinquanta nuove case; nella prima metà del XIV secolo il numero delle nuove fondazioni scende a dieci; dal 1350 al 1400, i documenti danno solo cinque nuovi insediamenti. La grande abbazia de “Les Dunes” nelle Fiandre raggiunse il numero più alto di monaci verso il 1300, con 211 monaci di coro e più di 500 fratelli conversi. Verso la fine del XVI secolo il numero della comunità era sceso a 61 e non c’era più nemmeno un fratello converso. Himmerod, nella regione del Reno, aveva nei primi anni del XIII secolo 60 monaci e 200 conversi; nel 1371, solo 13 sacerdoti si riunivano per una elezione abbaziale. Aiguebelle, un’abbazia “modesta” della Francia, aveva verso la fine del XIII secolo 36 abitanti, tra i quali i fratelli conversi erano tra gli 8 e i 10; nel 1326 vi erano solo 16 monaci; nel 1350 il numero era sceso a 14; nel 1447 a 10. Dopo il 1418 i documenti di Aiguebelle non fanno più menzione di fratelli conversi.

Uno studio sulla densità dei consacrati nell’Inghilterra medioevale, stimava che l’Ordine Cistercense avesse raggiunto il numero più elevato di membri nei primi anni del XIV secolo, con 1.656 monaci. Verso il 1381 il totale era sceso a 824; ma più tardi, nel XV secolo, le cifre cominciano a aumentare di nuovo, diventando circa 1.000 alla vigilia della soppressione. Una ripresa tardiva è rintracciabile anche in altri paesi, ma non v’è nessun dubbio sulla diminuzione drammatica delle vocazioni monastiche, verificatasi lungo tutto il XIV secolo.

Le ragioni della decadenza sono senz’altro più profonde della semplice negligenza di certi regolamenti; anzi, è molto probabile che il moltiplicarsi dei problemi disciplinari non era la causa, quanto piuttosto un sintomo che l’ambiente sociale che circondava le vecchie abbazie stava cambiando radicalmente e queste si trovavano a sussistere come corpi estranei, reliquie del passato, privi ormai di un messaggio significativo per una società divenuta estranea. Un problema simile, ma in certa misura meno grave, aveva potuto essere risolto positivamente nel XIII secolo, con l’assunzione di nuove modalità di formazione: i monaci allora avevano semplicemente indossato le nuove vesti accademiche sopra le loro cocolle. Ma la civiltà del tardo medioevo ben presto lasciò dietro le spalle le università, un tempo così orgogliose; e perfino gli Ordini Mendicanti che erano stati così straordinariamente popolari, sperimentavano una crisi ben più grave di quella degli Ordini monastici.

La nuova epoca non era per nulla anti-religiosa; anzi, la devozione popolare e le pie confraternite raggiungevano una nuova vetta di fervore religioso. Ma, strano paradosso, la nuova pietà era spesso anti-clericale; sottolineava molto il ruolo del laicato, cercava di stabilire relazioni intime e altamente personali tra Dio e il credente, senza la mediazione artificiosa dei voti e il rituale complicato delle quotidiane osservanze monastiche. Il risultato fu l’apparire di associazioni informali di uomini e di donne devote (beghine e begardi), che vivevano in città, in case poco appariscenti, impegnati nella meditazione e nelle opere di carità. La figura più notevole di questo movimento fu Gerardo Groote (1340 -1384) di Deventer, i cui seguaci furono spesso nominati come i Fratelli della Vita comune, sebbene essi rifiutassero risolutamente di formare un nuovo ordine con qualsiasi denominazione. L’espressione più bella della nuova spiritualità, cioè della devotio moderna, era L’imitazione di Cristo, lavoro di inimitabile semplicità e fascino, sebbene il suo umile autore, Tommaso da Kempis (1380 – 1470) non avesse fatto altro che raccogliere la saggezza religiosa di un certo numero di predecessori simili a lui.

Tanto per affrontare il problema solo da un punto di vista teorico, al limite si potrebbe dire che era necessario abbracciare la nuova spiritualità e le nuove forme di devozione per stare al passo della vita del tempo e assicurare popolarità e afflusso delle vocazioni: gli Ordini religiosi più antichi, Cistercensi compresi, avrebbero dovuto operare delle scelte in questo senso.

Ma in pratica, la capacità di adattamento di un ordine religioso è limitata in modo rigoroso dalle proprie tradizioni e soprattutto dalle strutture fondamentali che non possono essere continuamente cambiate senza incorrere nell’eventualità di perdere l’identità dell’Ordine stesso. Un lettore imparziale dei documenti del Capitolo generale può constatare che l’Ordine Cistercense aveva fatto dei lodevoli sforzi per conservare un buon livello di disciplina e assicurare un afflusso di vocazioni indispensabile per la sopravvivenza. I Cistercensi resisteranno alla crisi, ma non si può negare che la maggioranza di quanti ormai si univano alle comunità delle vecchie abbazie lo facevano non perché vi trovassero la possibilità di sviluppare fino alla perfezione la propria vita spirituale, ma perché i monasteri offrivano ancora una vita rispettabile, in un benessere e in una sicurezza almeno relativi. Quanti tendono ad accusare l’Ordine o i suoi dirigenti per le conseguenze indesiderabili ma inevitabili che nascevano da questa situazione, ignorano il fatto che gli ordini monastici erano componenti integrali dell’antica società feudale e il loro destino era strettamente connesso con la società in cui erano sorti. Nessuna associazione religiosa, tanto legata con le strutture portanti di una determinata società, quale era l’Ordine Cistercense, avrebbe potuto fiorire in un mondo in cui gli ideali di tali fondamenti erano stati così profondamente scossi. La semplice sopravvivenza degli Ordini in un tempo in cui tutte le altre istituzioni medioevali cadevano al margine della strada, deve essere considerata quale segno di vigore eccezionale; essa conserverà per il futuro i valori spirituali della vita monastica, per quando cioè, in una atmosfera sociale più favorevole, potranno risorgere a vita nuova.

Oltre a questi problemi esistenziali, innumerevoli altre cause esterne approfondivano la crisi in quasi tutte le comunità monastiche. Il papato avignonese, strettamente legato al governo della monarchia francese, aveva posto un pesantissimo onere fiscale sull’Ordine in un tempo in cui i cambiamenti del sistema economico e sociale già avevano quasi rovinato l’economia agricola dei Cistercensi, un tempo così fiorente. Le abbazie, che si trovavano in una perpetua crisi finanziaria, incominciarono su larga scala ad incorporare le parrocchie, quale fonte di entrate, sebbene la legislazione più antica avesse preso delle misure ferme contro l’apostolato attivo dei monaci, fuori dalle loro comunità. Un modo per risolvere il dilemma era quello di assumere come curati dei preti del clero secolare, desiderosi e disposti a lavorare nelle parrocchie per un salario relativamente ridotto, mentre la totalità delle entrate avrebbe arricchito la comunità della abbazia che le incorporava. Per la stessa ragione, spesso vennero accolti nell’Ordine Cistercense dei membri degli Ordini Mendicanti e, dopo la loro professione, venivano destinati alla cura delle anime.

Il grande scisma di Occidente (1378-1417) isolò Cîteaux da tutto il resto dell’Ordine, rendendo impossibile la riunione del Capitolo generale per una intera generazione. Il Papa di Roma, Urbano VI (1378-1389), come il suo successore, Bonifacio IX (1389-1404) proibì ogni contatto fra le case fedeli a Roma e Cîteaux che, come tutto il resto della Francia, riconosceva il papa di Avignone, Clemente VII. I papi di Roma promossero la realizzazione, un po’ dovunque, di Capitoli generali e nazionali, che sostituissero i Capitoli di Cîteaux: ed erano prevalentemente occasioni per raccogliere in pratica i contributi per il papa dalle case dell’Ordine. Così, tra il 1382 e il 1408, almeno 14 sessioni del Capitolo generale si tennero fuori di Francia: tre a Roma (1382-1383-1390), due a Vienna (1393-1397), una a Norimberga (1408), una a Worms (1384) e sette ad Heilsbronn (1394-1398-1400-1402-1404-1406-1407). L’amministrazione centrale era venuta meno, e così Urbano VI aveva nominato un italiano quale “abate di Cîteaux”, e diversi abati successivi come “abati di Morimond”e conservò un “vicario generale” per l’intero Ordine a Roma. Bonifacio IX continuò con la stessa politica; il suo vicario generale fu Giovanni Castiel, abate di Brondolo, responsabile della organizzazione di molti dei Capitoli menzionati sopra. Nel 1409, dopo il Concilio di Pisa, il Capitolo generale ritornò per la prima volta a Cîteaux, dove si riunirono, secondo l’affermazione di uno dei partecipanti, 228 abati.

Oltre alle assemblee generali, si tennero anche Capitoli. nazionali. Durante lo scisma, gli abati di Inghilterra, Scozia e Irlanda vennero incoraggiati a riunirsi nel 1381 e nel 1386. I Capitoli del 1394 e del 1400 si svolsero a Saint Mary Graces a Londra, e nel 1401 Bonifacio IX ordinava che i Capitoli nazionali inglesi dovevano riunirsi ogni tre anni sotto la presidenza dell’abate di Waverley o di Furness. La comunicazione fra le abbazie dell’Inghilterra e del Galles rischiò di non migliorare neppure dopo la fine dello scisma. Nel 1437 gli abati, a causa delle continue ostilità, facevano ritorno alle disposizioni invalse sotto Bonifacio IX e chiedevano al Papa Eugenio IV di poter effettuare dei Capitoli generati fra di loro, ogni tre anni, allo scopo di «poter prendere delle misure correttive, decisioni, ordini e legiferare secondo il presentarsi delle necessità, in tutte le materie che appartengono alla reputazione e alla crescita dell’Ordine». La richiesta venne accolta e concessa per tre anni.

Il Concilio di Costanza (1414-1418) riportò l’unità nella cristianità occidentale, ma l’esecuzione capitale, per eresia, di un professore di teologia di Praga molto popolare, Giovanni Huss, fece scoppiare le guerre hussite (1419-1436). Le forze ribelli, ben organizzate, diffusero il terrore in larghe regioni dell’Austria, della Boemia, della Moravia e della Slesia, distruggendo circa 30 abbazie cistercensi in quelle province. Le ricche abbazie della Slesia ebbero a soffrire terribilmente: tutte e sei (Leubus, Heinrichau, Kamenz, Rauden, Himmelwitz, Grússau) furono interamente saccheggiate più volte, con grande spargimento di sangue. Le abbazie rimasero senza abate per vari anni, mentre la loro totale rovina economica rendeva quasi impossibile la ricostruzione, persino dopo il ripristino della pace. Così, a Leubus, solo nel 1448 l’Ufficio Divino poté essere ripreso, dopo l’interruzione di 18 anni. Così afferma un cronista dell’abbazia: “l’Abate Dom Stefano di Leubus ordinò alla propria comunità di riprendere il canto di tutte le ore canoniche e dell’ufficio dei defunti. Nella sua benevolenza, lo stesso Signore Abate offriva alla sua comunità, ogni giorno, la stessa usuale misura di buona birra che egli aveva l’abitudine di prendere”. Dovunque, la ripresa era difficile e precaria a causa delle prolungate lotte di successione sul trono di Boemia e della frequenza con cui la peste si abbatteva sul paese.

Durante molta parte del XIV secolo, la Germania fu teatro di anarchia, senza possibilità di ricorso legale contro il flagello della guerra privata o del brigantaggio diffuso. Le abbazie cistercensi, nel loro isolamento rurale, furono sempre un bersaglio allettante per le bande dedite alle scorrerie, e per i ladri che cercavano facili prede. In tali condizioni una vita monastica disciplinata – e in molti casi la semplice sopravvivenza – era messa in discussione. Fra molti esempi tragici, la grande e ricca abbazia di Lehnin nel Brandeburgo può essere citata come caso tipico, almeno in certa misura. Nel 1319, evidentemente con la connivenza delle autorità del vicinato, l’abbazia fu conquistata da una banda di criminali armati i quali, terrorizzando i monaci, li obbligarono a eleggere come abate uno dei loro membri, rimanendo così comodamente sistemati nell’abbazia fino al 1339. Essi convertirono l’abbazia in una fortezza e l’usarono come base per ulteriori spedizioni di saccheggio, mentre i monaci che osavano protestare venivano assassinati o imprigionati.

In questo secolo di turbolenze e inquietudini, i proprietari terrieri della Germania, sotto il pretesto di “protezione” tentarono di costringere un certo numero di abbazie cistercensi a diventare loro sottomesse. La ricca abbazia di Maulbronn divenne nel quattordicesimo secolo oggetto di contesa tra i conti di Württemberg e quelli del Palatinato. Il monastero venne pesantemente fortificato e difeso da guarnigioni ora dell’uno ora dell’altro contendente, mentre una vita monastica tranquilla e pacifica diventava quasi impossibile. Alla fine, grazie all’intervento dell’imperatore, prevalsero le rivendicazioni dei conti (e più tardi dei duchi) di Württemberg: ed essi non esitarono ad estorcere ai poveri monaci indifesi una certa quantità di benefici economici e giurisdizionali. Questo avveniva anche se, almeno di nome, l’imperatore conservava il titolo di supremo e vero difensore e avvocato della abbazia di Maulbronn. Alla fine, nel 1504, l’imperatore Massimiliano riconosceva che Maulbronn faceva parte del territorio di Württemberg, dove tutta la amministrazione, compresa anche “l’alta e bassa giustizia”, erano diritto del Duca Ulrico.

Un destino simile attendeva Herrenalb, nella diocesi di Speier e Königsbronn, fondata con il consenso degli Asburgo nella diocesi di Augsburg. Entrambe queste abbazie avevano ricevuto all’origine delle garanzie di libertà dall’intervento dei feudatari ma i governatori di Württemberg non rinunciarono mai alle loro pretese di “difesa” su queste abbazie. Durante i secoli XIV e XV, attraverso la diplomazia o la violenza, essi riuscirono ad imporre su questi monasteri la loro “protezione”: ma in cambio i monaci dovevano pagare delle imposte, assumendo una serie di obblighi fiscali e legali. La natura lucrativa di questa “difesa” è ben documentata dal fatto che a un certo punto delle contese di giurisdizione, nel 1353, l’imperatore Carlo IV trasferiva, temporaneamente, la “tutela” di Königsbronn al Conte di Helfenstein, dietro il pagamento di 600 marchi d’argento. Quando il Duca Ulrico I di Württemberg abbracciò la riforma luterana, egli completò il processo di incorporazione di Maulbronn, Herrenalb e Königsbronn.

Più fortunata fu l’abbazia sveva di Salem. Dopo la caduta degli Hohenstaufen il disordine generale causò tali danni che nel 1263 l’abate Everardo Il valutava la dispersione della comunità. Ma la successione al trono di Rodolfo di Asburgo (1273) riapriva un’epoca di ricostruzione. Sotto l’abbaziato di Ulrico II (1282-1311) le entrate annuali passarono da 300 a 1.000 marchi e nel 1311 il monastero ospitava ancora 310 tra monaci e fratelli conversi.

La doppia elezione, nel 1314, di Luigi di Baviera e di Federico di Asburgo aprì il flagello della guerra civile per un’altra generazione. Salem si schierò con gli Asburgo e con il papato: ma in tal modo le proprietà e i beni del monastero erano esposti ai ripetuti attacchi dell’opposizione. L’abate Corrado di Enslingen (1311-1337) fu per due volte rapito e tenuto in ostaggio. I debiti del monastero raggiunsero la cifra di 8.000 fiorini e nel 1322 l’abate richiese l’approvazione del papa per l’incorporazione di tre parrocchie. Ma contemporaneamente l’abbazia doveva versare ingenti somme a causa della insufficiente protezione militare dei conti di Heiligenberg; solo nel 1327 l’abate dovette spendere per questo motivo 300 lire sterline.

Finalmente, nel 1348, Carlo IV di Lussemburgo, appena eletto, toglieva alla casa degli Heiligenberg la tutela dell’abbazia e dichiarava sé e i propri successori unici difensori del monastero. Il contratto imperiale del 1354 garantiva alla comunità delle estese immunità fiscali e giudiziarie, e queste venivano ulteriormente ampliate nel 1485 dall’imperatore Federico III. A quell’epoca Salem era divenuta una abbazia imperiale indipendente (Reichsunmittelbar) e quale simbolo di tale situazione, gli abati partecipavano alle diete imperiali. Nel frattempo e in circostanze analoghe, le abbazie bavaresi di Kaisheim e di Waldassen avevano ottenuto anch’esse lo statuto di abbazie imperiali.

Dopo il crollo del potere dell’impero, l’Italia diventava campo di battaglia di una guerra continua tra le ambiziose signorie locali, mentre le istituzioni monastiche soffrivano un destino simile a quello delle abbazie tedesche. Così nel 1262 San Galgano, la più grande abbazia toscana, cercava la protezione di Siena, ma, nel corso del XIV secolo, divenne vittima delle incessanti scaramucce tra Siena e Firenze. Nel 1365 il famoso condottiero inglese a servizio di Firenze, sir John Hawkwood, conquistava e si impadroniva di San Galgano e sistemava nell’abbazia il proprio quartier generale. Verso il 1397 il solo abitante di quel santuario un tempo così popolare era l’abate, Lodovico di Tano, che fu costretto a vendere pezzo a pezzo la proprietà del monastero per pagare delle esorbitanti imposte papali.

In Inghilterra e nelle regioni della Francia che erano sotto il dominio inglese, l’autorità di Cîteaux venne severamente diminuita molto tempo prima dello scoppio delle ostilità della guerra dei Cento Anni. Le visite regolari non si potevano effettuare e la maggior parte delle abbazie erano diventate indifese dalla rapace politica fiscale di entrambi i paesi. Occorreva quasi comunemente che gli abati sottomessi al governo inglese fossero impediti di partecipare al Capitolo generale o non potessero inviare a Cîteaux le loro contribuzioni: le visite regolari dei padri immediati francesi in Inghilterra erano di fatto impossibili o inutili. Il risultato inevitabile fu la diffusione di abusi e l’incapacità di correggerli. L’abbazia di Bindon a Dorset, tra il 1306 e il 1337 può servire da esempio per illustrare, purtroppo, , le condizioni divenute intollerabili. L’abate, John Montecute, dopo molti anni di malgoverno, venne costretto a dare le dimissioni nel 1316 e fu sostituito da Roger Hornhull. Ma alcuni anni più tardi, Montecute con altri otto monaci che si erano allontanati dalla comunità, si allearono con alcuni loro simpatizzanti laici, attaccarono e riconquistarono il monastero,.phportarono tutti gli oggetti di valore insieme con il sigillo del monastero e presero alcuni monaci, che si opponevano, come ostaggi. John Chidley, abate di Ford e Padre Immediato di Bindon, non era in grado o forse non voleva intervenire; allora Riger Hornhull chiese aiuto ad Edoardo III (1327-1377), che ordinò al Duca di Devon di riportare l’ordine e di recuperare tutto ciò che era stato rubato. La stessa ingiunzione doveva essere ripetuta quattro volte e ciò sta ad indicare che, nonostante tutto, non venne presa nessuna misura di repressione, forse perché la popolazione locale era connivente con i ribelli. Alla fine, nel 133, Montecute venne catturato con alcuni membri della sua “banda”, riuscì a fuggire, ma fu catturato di nuovo. Si pensava tuttavia che egli fosse pericoloso anche in prigione: allora il re Edoardo chiese a Guglielmo, abate di Cîteaux, di esiliarlo e di farlo relegare in qualche posto più sicuro, e di provvedere insieme a un altro Padre Immediato per Bindon, dato che circolava il sospetto che John Chidley di Ford avesse interesse al ritorno di Montecute.

Incidenti di questo genere, comunque, erano solo degli indizi premonitori di quello che sarebbe accaduto a scala nazionale dopo lo scoppio della guerra dei Cento Anni, nel 1337. Cîteaux si trovò completamente isolata da tutto il resto del mondo. La partecipazione ai Capitoli generali annuali venne ridotta, la maggior parte delle volte, alla presenza dei soli abati degli immediati dintorni della Borgogna. I documenti dei Capitolo riflettono chiaramente la frustrazione generale dei partecipanti nel rendersi conto delle condizioni sempre peggiori di tutta la Francia, senza nessuna speranza di porre rimedi efficaci. I documenti degni di fiducia, in una monotona e deprimente esposizione di distruzioni totali, di cui non si vedeva la fine, non lasciano nessun dubbio: di fatto tutte le comunità, una volta o l’altra, si trovarono esposte alle devastazioni vandaliche degli eserciti erranti o delle armate mercenarie dedite alle scorrerie. I saccheggi e gli incendi dolosi erano spesso aggravati dagli assassini. I monaci, terrorizzati e angustiati, si rifugiavano in luoghi fortificati, lasciando vuoti i loro monasteri per molti anni consecutivi. Nel 1364 i monaci di Cîteaux furono costretti a cercare rifugio a Digione, dove la loro abbazia aveva una casa, chiamata Lamonoye. Poi fecero una petizione a papa Urbano V per potervi restare e celebrarvi l’ufficio divino, fino al termine delle ostilità. In risposta alla petizione, il papa concedeva a tutti i Cistercensi di Francia il permesso di trasferirsi in luoghi di rifugio ed autorizzava i monaci a farsi degli altari portatili un po’ dappertutto, per poter continuare ad assicurare il compimento dei loro obblighi religiosi. Le proprietà dei monasteri restarono incolte e per mancanza di fondi le abbazie non erano in grado neppure di provvedere alle necessità delle comunità, per quanto così ridotte. I monaci, spinti dalla fame, furono costretti a vagare di villaggio in villaggio per mendicare del cibo. Fu questo il caso dei monaci di Boulancourt, i quali, dopo la distruzione totale della abbazia, nel 1381, sopravvissero di carità, lasciando deserto il monastero per ventidue anni.

Le visite regolari subirono una interruzione e gli abusi si moltiplicarono soprattutto quando, attraverso la violenza o la simonia, un uomo indegno si accaparrava la carica abbaziale. Il Capitolo generale non aveva mezzi efficaci per intervenire, le autorità locali si dimostrarono spesso complici delle situazioni, e condizioni impensabili in tempi più felici, prevalsero per un periodo di tempo indefinito. Come esempio saranno sufficienti alcuni incidenti più significativi.

Guyenne, del Sud-est, fu continuamente contestata tra i belligeranti, diventando lo scenario tragico dei peggiori disordini e delle peggiori distruzioni. A Candeil, nel 1372, il numero dei monaci era diminuito da sessanta a dodici; ma questi, anche se così ridotti, non avevano mezzi per sussistere, a causa di un indegno intruso divenuto abate simoniacamente. Questi, di nome Bernardo, passava il tempo a giocare a dadi, perdeva centinaia di fiorini in una sola volta, aveva tre concubine, si dilettava con la caccia e portava abitualmente delle armi; di più, era incolpato di omicidio e, secondo il documento che lo attesta, alcuni dei suoi monaci erano responsabili di crimini analoghi; inoltre, il Capitolo generale non era informato dello scandalo, e ciò è caratteristico quando si diffonde la mancanza di informazione e di controllo.

Fu Papa Gregorio XI che, dopo un certo numero di ammonizioni inutili, ordinò al Vescovo di Albi ed all’Abate di Grandselve di prendere delle misure energiche contro tale scandaloso abate. Non si sa come terminò la questione; è però molto dubbio che Grandselve fosse in condizione di offrire un aiuto significativo. Perché Grandselve era senz’altro l’abbazia più potente e più popolata della zona, ma verso il 1349 aveva subito un tale crollo economico che la casa non era in grado di mantenere le persone che l’abitavano; perfino il governo francese aveva ordinato ai propri collettori di imposte di non presentarsi nemmeno all’abbazia. Nel 1357 Papa Innocenzo VI scrisse una lettera alle autorità inglesi, sotto Edoardo, il “Principe Nero”, per chiedere che venisse presa in esame la situazione di Grandselve, che si trovava all’orlo di un disastro completo. Ancora, nel 1364, Urbano V si rivolgeva alla abbazia come «al più devastato fra tutti i monasteri della regione, a causa di terribili guerre e pestilenze». Le terre dell’abbazia, un tempo così ricche, erano divenute campi di battaglia ed anche le sue proprietà nei centri urbani furono devastate: nel 1367 i cittadini di Bordeaux demolirono due case che appartenevano a Grandselve e ne usarono le pietre per fortificare e riparare le roccaforti.

Anche la visita regolare, quando era prescritta e poteva essere realizzata, non era per nulla una garanzia di successo. Il crollo economico e morale di Bonnefontaine, nella diocesi di Reims, richiese una visita regolare nel 1364, su domanda dello stesso abate Guy. Ma all’interno dell’abbazia una opposizione violenta era fomentata da un monaco dissidente, Jean di Hermontville, e quando gli abati di Signy, Foigny e Valroy arrivarono, trovarono le porte chiuse. Un secondo gruppo di visitatori regolari si trovò ancora in condizioni peggiori: furono imprigionati dai ribelli, che trattarono in modo simile anche il loro abate. Anche questo caso non venne registrato nei documenti del Capitolo generale, ma era ben conosciuto ad Avignone. Nel 1374 Gregorio XI ordinava all’Abate di Cîteaux di riportare la disciplina in quella turbolenta comunità, ma mancano dettagli sullo svolgimento successivo dei fatti.

Lo scisma della Chiesa, successivo a questi eventi, scoppiato dopo il ritorno a Roma di Urbano VI nel 1377, aggravò ancora l’atmosfera cupa e senza speranza per Cîteaux. I pochi Padri presenti al Capitolo generale nel 1390, presero a prestito le frasi del discorso escatologico di Cristo (Mt. 24, 12) per cercare di descrivere la situazione difficile dell’Ordine: “… quando scende la notte sul mondo, come dice il Signore, l’iniquità abbonderà e la carità di molti si raffredderà: questo è il motivo per cui così pochi sfuggono al naufragio di questo mondo per aggrapparsi alla zattera della conversione e della santa religione». Essi riconoscevano contemporaneamente che era soprattutto a causa della mancanza di efficaci visite regolari che «i monasteri e le case dell’Ordine, di monaci e monache, sono divenuti così spaventosamente deformi, desolati, quasi completamente annichilati nei problemi sia di ordine spirituale che materiale, a tal punto che in questi giorni in nessuno si è conservata la pietà, l’autentico spirito religioso, o perfino tracce dell’osservanza dell’ordine ….”.

Le condizioni divennero peggiori durante i primi decenni del XV secolo, quando la guerra sfociò in una sanguinosa lotta civile tra i Borgognoni e Armagnacs. L’apparire di Giovanna d’Arco (1429) fece risorgere le forze francesi, ma la legge e l’ordine tardarono ad essere ripristinate. Ancora, verso il 1440 le condizioni di Aiguebelle attestano chiaramente il fatto che il governo dell’Ordine, rimasto senza timone, continuava a barcollare in mezzo a problemi di difficile soluzione. Un ex-frate domenicano Jean d’Hostel, venne ammesso illegalmente nell’abbazia, e poi nel 1441, eletto abate mentre il suo predecessore era ancora in carica. L’anno successivo il Capitolo generale approvava la sua ammissione, ma lo dichiarava non eleggibile per l’abbaziato. Nonostante questa decisione, egli si guadagnava un tenace controllo dell’abbazia e lo manteneva fino al 1445, quando l’abate di Morimond, nella visita regolare di Aiguebelle, lo scomunicava con i suoi principali sostenitori e gli ingiungeva di comparire davanti al Capitolo generale, quello stesso anno. L’intruso, tuttavia, ignorò la convocazione ed ottenne le dimissioni formali del proprio predecessore; dopo di che il Capitolo generale del 1446 non solo lo riconosceva come abate legittimo, ma gli affidava la visita regolare di alcuni conventi di monache cistercensi. L’amministrazione di Jean d’Hostel fu talmente rovinosa che egli venne di nuovo deposto nel 1448 e il suo predecessore venne rieletto abate. Ma quella persona inquieta rifiutò nuovamente di sottomettersi e continuò a creare tali e tante agitazioni nella abbazia che il Capitolo generale del 1450 lo scomunicava di nuovo come ribelle, insubordinato e cospiratore.

L’elezione abbaziale di membri di altri ordini religiosi non era per nulla eccezionale, se ciò faceva prevedere dei vantaggi materiali per i monaci, messi alle strette. Dei Benedettini vennero eletti a BenissonDieu (1419), Sept Fons (1419), Le Pierres (1436) e Dalon (1443).

Mentre la Francia di Luigi XI (1461-1483) si avviava verso la ricostruzione, l’Inghilterra piombava in una lunga e sanguinosa lotta civile, la cosiddetta Guerra delle Rose (1445-1485) che gravò pesantemente sulle istituzioni monastiche, già tanto provate. La frequenza regolare ai Capitoli generali restava impossibile. Gli abati inglesi furono rappresentati nel 1471 da un solo individuo, Lazzaro di Padway, il quale, secondo il rapporto che ne fece all’abate di Buckfast, lasciò dietro a se una descrizione dei viaggio, piena di avventure spiacevoli: «incontri con eserciti nemici, ladri, grandi pericoli, fatiche, terrori, molestie ed ansietà». Alcuni abati tedeschi, in viaggio verso Cîteaux, vennero catturati da briganti a Morimond, maltrattati, tenuti in ostaggio fino al pagamento dei riscatto nonostante i loro passaporti, e poterono fuggire solo completamente nudi. Lazzaro osò continuare il suo viaggio fino a Cîteaux solo perché «portava in petto un cuor di leone». Di ritorno in Inghilterra passò attraverso Reims, dove, scriveva «tutti si meravigliavano della mia buona fortuna e della mia audacia, per essere arrivato sano e salvo dopo aver attraversato un terreno infestato da predoni e da banditi».

Oltre alle interminabili calamità della guerra, il XIV secolo fu sconvolto da catastrofi naturali, avvenute su scala senza precedenti. Tra il 1315 e il 1317 una terribile carestia devastò l’intera Europa; e poi, trent’anni dopo, si diffuse il primo grande flagello della peste bubbonica, la cosiddetta Peste Nera: essa si propagò in lungo e in largo nel continente, portandosi via nel corso di tre anni almeno un terzo della popolazione. Fra le comunità monastiche il tasso di mortalità sembra che abbia raggiunto i due terzi degli abitanti. Terrore e disperazione si impadronirono di milioni di uomini e li ridussero a uno stato di totale prostrazione. Le conseguenze sociali ed economiche che ne vennero alla popolazione, drasticamente ridotta, portarono a una ondata di insurrezioni contadine o rivoluzioni cittadine che accrescevano lo spettro di una rovina imminente.

A Meaux, nello Yorkshire, il flagello si accese intensamente nel 1349. Come racconta nel 1437 Thomas Burton, abate e cronista, e lo riporta con un amaro umorismo, il disastro venne introdotto da un presagio di cattivo augurio. Il Venerdì che precedeva la Domenica delle Palme (27 Marzo) i monaci stavano cantando il Magnificat in coro quando una terribile scossa di terremoto li proiettava fuori dai loro stalli, proprio al momento in cui raggiungevano il versetto “Ha deposto i potenti dal loro trono”. All’inizio di quell’anno l’abbazia contava quarantatré monaci, compreso l’abate e sette fratelli conversi; di questi, solo dieci, sopravvissero all’epidemia. Il peggio accadde nel mese di agosto, quando in un sol giorno morirono cinque monaci e l’abate Ugo. A Newenham, nel Devon, venti monaci e tre fratelli conversi morirono nel 1348-1349, e restarono in vita solo due monaci e l’abate Walter. Nell’abbazia spagnola di Poblet, durante il 1348 morirono due abati, uno dopo l’altro, insieme a venticinque monaci e a trenta fratelli conversi. Adwert, una grande abbazia tedesca, aveva un centinaio di monaci e duecento fratelli conversi all’inizio del secolo; nel 1350 il flagello si portò via quarantaquattro monaci e centoventi fratelli. Non conosciamo il numero dei monaci del grande Pontigny, prima di questi anni terribili; ma nel 1366 la comunità contava soltanto 17 membri. Una visita regolare fatta in Ungheria nel 1356 da Sigfrido von Waldstein, abate di Rein (1349-1367), descriveva le condizioni di undici abbazie: una di esse (Ercsi) era totalmente abbandonata. Altre due comprendevano solo tre monaci inclusi gli abati (Pàsztò e Bélhàromkùt) e tutte le altre avevano un numero di monaci inferiore molto alla norma. Waldstein, in un rapporto che dava al Re Luigi I, suggeriva di invitare personale da abbazie straniere e di costringere i monaci che vagabondavano attraverso al paese, a fare ritorno ai loro monasteri. I tassi di mortalità di successive pesti furono spesso altrettanto micidiali. Nel giro di due mesi, nel 1419, l’abbazia francese di Vauclair perdeva undici membri.

L’impatto della Peste Nera sulla vita monastica andò ben oltre la riduzione del personale o le difficoltà di carattere economico. Per mantenere un minimo di monaci in ogni comunità, il Capitolo generale del 1349 permetteva che i novizi facessero professione anche senza aver compiuto un anno di noviziato, a condizione che il candidato avesse almeno quattordici anni e conoscesse il salterio a memoria. ù difficile fare accertamenti sulla probabile riduzione delle qualità morali, ma senz’altro la ricerca di vocazioni si estese verso i gradi più bassi della società. Nel corso del XIV secolo la nobiltà in pratica scomparve dalle file dei monaci. A Himmerod, per esempio, nel corso del XII e del XIII secolo la nobiltà era ben rappresentata perfino nelle file dei fratelli conversi; ma la composizione della comunità contava solo dei membri della borghesia verso la metà del XIV secolo. L’ultimo abate appartenente alla nobiltà, a Himmerod, Enrico von Randeck, moriva nel 1330. L’elenco dei monaci, nei secoli XIV e XV, mostra solo quattro nomi di persone collegate con la famiglia della più alta borghesia locale.

La graduale sostituzione degli abati liberamente eletti con la nomina di abati “commendatari”, a lungo andare, risultò molto nociva alla vita monastica. Il termine deriva da commenda cioè dalla concessione di un beneficio, come una abbazia, in commendam, il che implicava l’obbligo di proteggere o amministrare una proprietà ecclesiastica durante la sede vacante. Le prime attuazioni medioevali della commenda erano diventate proprio il bersaglio dei riformatori, e al tempo della fondazione di Cîteaux il problema era sembrato già cosa del passato. Tuttavia, a metà del XIII secolo, soprattutto dopo Clemente IV (1265-1268) il diritto di proteggere liberamente l’elezione abbaziale era nuovamente messo in pericolo dalla dottrina dell’illimitato potere del sommo pontefice (la plenitudo potestatis) che includeva il diritto di provvigione per tutti i benefici. Nomine papali nelle terre lontane restavano tecnicamente impossibili per molto tempo, ma Niccolò III (1277-1280) insisteva che tutte le elezioni dovevano essere confermate dalla curia. Il sistema di nomine papali, realizzate in concreto, fece un gigantesco passo in avanti durante gli anni di Avignone. Sotto la pressione di oneri finanziari sempre crescenti, i papi convertirono tali rivendicazioni in fonti di entrate di danaro: la concessione di bolle di nomina o di conferma dell’elezione era condizionata dal versamento di una ingente tassa. Giovanni XXII (1316-1334) si riservò personalmente tutte le nomine in Italia e la stessa politica venne estesa su altri territori da Benedetto XII (1334-1342) e da Clemente VI (1342-1352). Quest’ultimo sommo pontefice, quando gli venne ricordato che tali provvedimenti non avevano precedenti, sembra che avesse replicato: «I nostri predecessori non si sono resi conto di essere dei papi». Durante il grande scisma di Occidente sia Roma che Avignone sfruttarono al massimo le nomine papali non solo per ragioni di carattere finanziario, ma anche per guadagnarsi così dei fidi partigiani. La tassa da pagare corrispondeva normalmente alla terza parte nelle entrate annue del beneficio. Bonifacio IX decretò nel 1399 che coloro i quali non avessero pagato l’ammontare stipulato entro i due mesi, avrebbero perso tutti i diritti di reclamo sull’ufficio desiderato. I principali beneficiari che traevano profitto dal nuovo sistema erano i nipoti dei papi, i cardinali, ed altri ufficiali dell’ambito della Curia, molti dei quali accumulavano un gran numero di lucrosi benefici (sinecura). Pochi di questi abati commendatari si curavano di trascorrere anche solo poco tempo nei loro monasteri: il loro interesse principale era quello di raccogliere le entrate delle abbazie.

La natura abusiva di simili disposizioni era ben chiara non solo alle abbazie interessate, ma anche ai governi stranieri, i quali erano risentiti che delle persone estranee, residenti in paesi lontani, godessero di sostanziosi introiti. In Inghilterra, fin dal 1307, lo Statuto di Carlisle intendeva limitare le nomine papali e nel 1351 lo Statuto di Provisors difendeva i diritti degli elettori inglesi e i privilegi della corona su questioni di patronato. Al Concilio di Costanza (1417), fu molto discussa la questione delle provvigioni e commende papali, ma invece di giungere a una proibizione definitiva degli abusi, furono suggerite soltanto delle leggere modifiche. L’insuccesso di Costanza incoraggiò solo i governi secolari a competere con le ambizioni papali sul controllo dei benefici. Lungo il XV secolo l’elezione libera degli abati diventò una rara eccezione.

In Francia la Prammatica sanzione di Brouges (1438) prese una ferma posizione contro l’intervento dei papi nelle nomine ecclesiastiche, ma prestava solo un sostegno verbale al principio della libera elezione, perché lasciava aperta la porta alla pressione esercitata dalla monarchia sotto la forma di raccomandazioni benevole. Il papato non accettò mai i termini di questo documento e di, fatto Luigi XI lo revocava nel 1461. Dal punto di vista dei monaci, comunque, c’era poca differenza se era il re invece del papa a privarli del diritto di governare da sé la propria abbazia, senza l’intervento costante di forze esterne. Il Parlamento di Parigi, in un memoriale indirizzato al Re Luigi XI nel 1467, giustamente sottolineava che le entrate dei benefici sono t.phportate fuori dal paese; i benefici in se stessi si trovano di fronte alla loro rovina; in tutti i monasteri sono scomparse tutte le forme della disciplina regolare; gli uffici divini sono svolti in modo sconveniente e senza devozione, pregiudicando le intenzioni dei fondatori e diminuendo le preghiere che sono dovute in suffragio delle anime dei benefattori dei monasteri. Così come vanno in rovina le istituzioni materiali, allo stesso modo si corrompono le istituzioni spirituali. Condizioni simili sono comuni fra i monaci, i quali, per mancanza di disciplina, cadono in una vita di rilassamento o spesso diventano apostati…. simili a pecore erranti senza pastore. Fino a che i benefici non fanno ritorno a degli abati regolari, è impossibile far risalire la china alla rovinosa tendenza che trascina le istituzioni materiali e spirituali”.

Le stesse obiezioni per le stesse ragioni vennero ripetute, ma senza risultato, negli Stati Generali del 1483.

In Spagna le condizioni non erano certo migliori. Nel 1475 il Re Giovanni II di Aragona chiedeva a Sisto IV di nominare uno dei suoi nipoti, un bambino illegittimo di sei anni, alla sede metropolitana di Saragozza. Temporaneamente il Papa rifiutò una richiesta tanto scandalosa, ma concedeva al bambino una pensione tratta dalle entrate della cattedrale. Nel 1511 al Sinodo di Burgos gli abati spagnoli levarono in protesta le loro voci contro le nomine papali di abati commendatari, ma il male così profondamente radicato continuò a sussistere.

Le coraggiose risoluzioni del V Concilio del Laterano (1514) richiesero l’abolizione della commenda, ma vennero annullate da Leone X, il quale, dopo la sua sconfitta a Marignano, sottometteva al Re Francesco I di Francia ciò che venne poi legalizzato dal Concordato di Bologna del 1516: il controllo della corona sulle nomine abbaziali. In realtà, nello stesso documento il Re prometteva di nominare soltanto monaci che avessero almeno ventitré anni di età quali abati commendatari, ma di fatto né lui né il suo successore rispettarono queste restrizioni. Anzi, la nomina di laici, anche di bambini, divenne un fatto comune. Nel 1517 il Papa cercava di modificare il Concordato per esentarne gli ordini monastici, ma il Re ignorò il breve papale. Nel 1531 Clemente VII concedeva formalmente l’abolizione delle elezioni abbaziali, facendo eccezione per le sole case madri e, per i Cistercensi, solo per la abbazia di Cîteaux. Da allora in poi si comprese bene che il sistema delle commende costituiva l’ostacolo reale sulla via di qualsiasi riforma della vita monastica; il Concilio di Trento fece un ultimo tentativo per eliminare tali abusi disastrosi. Ma il governo reale non sì dimostrò disposto a collaborare. I canoni del Concilio non vennero mai pubblicati in Francia, e il sistema delle commende gravò sulla vita monastica fino alla Rivoluzione Francese. La sola concessione fatta nel 1558 e confermata più tardi dall’Ordinanza di Blois del 1579 fu quella di garantire le libere elezioni abbaziali nelle principali abbazie dell’Ordine: Cîteaux, La Ferté, Pontigny, Clairvaux e Morimond. Verso la fine del XVI secolo la grande maggioranza delle abbazie cistercensi in Francia era sotto la commenda, anche se occasionalmente il Re nominava abati dei membri dell’Ordine, mentre altre volte degli abati commendatari ben intenzionati indossavano spontaneamente l’abito regolare dell’Ordine per governare poi i loro monasteri quali abati regolari. Per questo motivo è difficile dare un numero preciso di abbazie rette da abati regolari o da abati commendatari. Ma almeno i 4/5 di tutte le abbazie francesi nel corso del XVI secolo, languivano permanentemente sotto il governo di abati commendatari.

Fin dagli inizi, l’Ordine Cistercense era ben consapevole dei pericoli inerenti al sistema delle commende, anche se le autorità dell’Ordine non ebbero mai dei mezzi adeguati per arrestare o per ritardare tale tendenza. Oltre ai documenti che hanno registrato le lagnanze e le proteste, le uniche realizzazioni tangibili cui poté arrivare il Capitolo generale furono la conferma dei privilegi cistercensi ed altre garanzie papali promulgate generosamente dalla Curia dopo il versamento di altrettanto generose tasse. Così, Giovanni XXIII promise solennemente nel 1415 che avrebbe nominato soltanto dei Cistercensi alle sedi vacanti delle abbazie dell’Ordine e che avrebbe evacuato tutte le nomine precedentemente concesse ad altri, eccetto quelle conferite ai cardinali. Documenti analoghi ed anche più promettenti furono promulgati da Niccolò V (1447-1455) così che il Capitolo generale del 1458 registrò con grande giubilo che “secondo i privilegi del nostro Ordine, rinnovati recentemente e confermati dal supremo pontefice, nessuno, neanche un cardinale, può essere a capo dei monasteri del nostro Ordine quale abate commendatario”.

La triste realtà dei fatti non convalidava l’ottimismo dei padri capitolari. Le prime nomine papali sulle abbazie cistercensi si verificarono in Italia sotto Giovanni XXII (1316-1334) ma ben presto delle pressioni

analoghe prevalsero in tutto l’impero, in Francia e in Spagna, anche se le prime istanze di provvigioni comportavano la nomina di un Cistercense. Così, fin dal 1328 la sede abbaziale di Ebrach venne concessa ad Alberto di Anfeld, il quale versò 800 fiorini per il favore (servitium commune). Nel 1338 si.phpettava che il nuovo abate di Salem, Ulrico Sargans, versasse 1.650 fiorini ad Avignone. Secondo i registri papali della stessa epoca vennero eletti gli abati di Wettingen, Altzelle, Viller e di Orval allo stesso modo. Durante lo scisma, anche Kaisheim, Lützel, Heilsbronn, Vai-Saint-Lambert, Morimond, Georgenthal, Neuzelle, Grüssau e Kamenz seguirono la stessa sorte.

Nel XV secolo le abbazie cistercensi dell’Ungheria erano liberamente contese e governate dalle nobili famiglie locali. Condizioni simili esistevano in Irlanda, mentre in Scozia i Re reclamavano il diritto di nomina degli abati. Sui venti abati e priori cistercensi che nel 1560 facevano parte del parlamento scozzese 14 erano commendatari. Solo in Inghilterra il sistema delle commende non riuscì a prendere piede. Il motivo principale per cui l’Inghilterra godeva di una posizione speciale consisteva nel fatto che l’interferenza effettiva dei papi nelle nomine abbaziali iniziò ad Avignone, al tempo in cui stava per scoppiare la Guerra dei Cento Anni. Gli Inglesi sospettavano che il Papa agisse abitualmente a vantaggio dei Francesi, e quindi opposero tenaci resistenze ai tentativi fatti dal papato per intervenire negli affari ecclesiastici di Inghilterra.

In Francia, nonostante ogni garanzia, tutte le grandi abbazie, una dopo l’altra, persero la loro indipendenza. Nel 1470 venne la volta di La Ferté, anche se dopo due anni di trattative legali si concesse che un Cistercense ricoprisse l’ufficio di abate. Verso lo stesso periodo, altre comunità, fra cui Balerne, Fontfroide, Bonnecombe, Ourscamp, Bonnevaux e Grandselve caddero sotto il governo di un abate commendatario. Il Capitolo generale del 1473 completamente allarmato, decise di mandare a Roma una delegazione di abati molto imponente, guidata dallo stesso abate di Cîteaux, Umberto di Losne (1462-1476). Il Papa Sisto IV (1471-1484) e la sua corte seguirono le esposizioni degli abati, a quanto si disse, con le lacrime agli occhi, ma la bolla pubblicata l’11 marzo 1475 non faceva altro che ripetere semplicemente le promesse e le limitazioni tradizionali. Così, si proibiva agli abati commendatari di ridurre il numero dei monaci; essi erano tenuti a mantenere i monaci, provvedendo convenientemente alla loro alimentazione e al loro abbigliamento; si chiedeva loro di provvedere a che gli edifici restassero in buono stato, a difendere i diritti e i privilegi delle abbazie ed a pagare tutti gli oneri fiscali e le tasse; ad essi era proibito di alienare le proprietà monastiche; e da ultimo, l’abate commendatario dopo la sua nomina, doveva prestare giuramento di rispettare e di assumere i punti sopra ricordati. Era però discutibile se tale documento valesse i 6.000 ducati spesi dalla delegazione romana.

Il futuro dimostrò che gli scettici avevano ragione; ma il successore di Dom Umberto non era uno di questi. Si chiamava Jean de Cirey (1476-1501), era già stato abate di Balerne ed aveva partecipato alle trattative in Roma. Il nuovo abate di Cîteaux era un uomo di buone intenzioni, di grandi ideali e di forte energia, ma poneva troppa fiducia nel valore delle sue conoscenze romane e nell’apporto di una nuova ondata di bolle promulgate a favore dell’Ordine. Egli ottenne da Sisto IV tredici documenti di questo genere ed altri sedici da Innocenzo VIII (1484-1492), spendendo una vera fortuna e lasciando dei grossi debiti. L’unico frutto tangibile dei suoi sforzi fu la pubblicazione della prima collezione a stampa dei privilegi cistercensi: Collecta quorumdam privilegiorum Ordinis Cistercensis (1491).

Mentre la Curia rimaneva inflessibile, si aprirono delle speranze per un cambiamento nella politica del governo francese alla morte di Luigi XI (1483). Infatti, sperando nell’azione energica del giovane Carlo VIII (1483-1498), con delle insurrezioni locali riuscirono ad espellere con la forza un certo numero di abati commendatari, ma gli Stati Generali del 1484 apportarono delle ulteriori delusioni. Il giovane re ascoltava con molto garbo l’esposizione senza fine delle lagnanze, ma non prendeva nessun provvedimento. Spillar quattrini agli istituti monastici, sia da parte di Roma che da parte di Parigi, era diventato allora così semplice e così fruttuoso che non ci si poteva.phpettare nessuno sforzo veramente sincero per migliorare le sorti delle abbazie, divenute ormai deplorevoli dopo essere state così gloriose, ma destinate ormai ad una inesorabile decadenza.

Le abbazie cistercensi stavano ancora peggio in Italia che in Francia. Nel corso del XV secolo tutte le abbazie della penisola, senza eccezione, erano vittime della cupidigia degli ufficiali di curia. Dati statistici sicuri coprono solo il secolo XVI, ma, ovviamente, le condizioni tragiche risultavano da tutto un secolo di trascuratezza e negligenza.

Una rappresentazione sconcertante dell’influenza disastrosa dell’infelice sistema venne esposta da Nicola Boucherat che aveva visitato nel 1561 le case dell’Ordine situate nello Stato Pontificio e nel Regno di

Napoli e di Sicilia. Ognuno dei 35 monasteri era governato da un abate commendatario. Boucherat, che era Procuratore Generale, aveva trovato dappertutto gli edifici dilapidati, e molti in rovina. 16 monasteri erano completamente deserti; in alcuni altri vivevano pochi sacerdoti secolari o membri di altri Ordini religiosi. Il totale dei monaci cistercensi di tutte quelle 35 case era complessivamente di 86 monaci, che sopravvivevano in condizioni miserevoli, senza nessun vestigio di disciplina regolare o di servizio liturgico. Un’altra visita, fatta nel 1579. rivelava condizioni simili in Lombardia e in Toscana, dove una settantina di monasteri lottavano senza speranza contro il loro abate commendatario per la semplice sussistenza.

Una misura per giungere a migliorare le condizioni locali fu resa possibile da contratti stesi fra l’abate commendatario e i suoi monaci. Era questo probabilmente il caso dell’Abbazie delle Tre Fontane, a Roma. Questa abbazia si trovava in commenda fin dal 1383 e verso il XVI secolo il famoso monastero nonché la chiesa si trovavano in uno stato così scandaloso che il Papa Leone X nel 1519 fu costretto ad intervenire. Dopo le dimissioni del Cardinale Raffaele Riario, il Papa nominava suo cugino, Giuliano de’ Medici, nuovo abate commendatario ma gli imponeva un contratto con le Tre Fontane, promulgato sotto forma di una bolla pontificia. Secondo tale convenzione, la “mensa abbaziale” era separata dalla “mensa conventuale”, cioè: si doveva mettere da parte una cifra determinata in base alla quale la comunità potesse vivere, 400 ducati d’oro, che si ritenevano sufficienti per dodici monaci. Il capitolo conventuale aveva il diritto di eleggersi un priore, responsabile per l’amministrazione interna e la disciplina. All’abate commendatario non era permesso alterare la cifra della “mensa conventuale”; tuttavia, il sopraggiungere di considerevoli perdite economiche gli avrebbe permesso di ridurre, proporzionalmente, il numero dei monaci.

Da quanto si è detto fino ad ora dovrebbe risultare ovvio che il crollo materiale delle istituzioni monastiche non era affatto l’unica, e forse neanche la meno preoccupante, fra le conseguenze del governo degli abati commendatari. Quando manca un abate, molte tradizionali funzioni liturgiche non possono aver luogo, la disciplina non può essere vigorosamente rafforzata, perfino le condizioni sociali della comunità inevitabilmente decadono. Quando un abate commendatario, che è una persona dell’esterno, tenta di interferire nella vita quotidiana dei monaci, le condizioni spesso si fanno intollerabili. Quindi il Capitolo generale insisteva sempre sulla natura unicamente titolare delle nomine degli abati commendatari: il loro unico diritto era quello di incassare la loro parte delle entrate dei monastero. Ogni altra responsabilità era demandata al priore: questi, nei primi tempi, doveva essere eletto, ma alla fine veniva nominato dal Padre Immediato regolare della abbazia concessa in commenda. Però, il priore conventuale non aveva il diritto di compiere visite regolari e non era autorizzato a prendere parte al Capitolo generale, così l’amministrazione dell’Ordine risultò altrettanto indebolita quanto il sistema di verifica e di controllo. La partecipazione al Capitolo generale subì un calo quasi drammatico; durante il XV secolo e nella prima metà del XVI secolo il numero degli abati presenti non fu mai superiore a 50; nel 1541 si riunirono solo 18 abati.

Inoltre, sembrava, apparentemente, che lo stabilire un ammontare fisso per la “mensa conventuale” fosse una soluzione vantaggiosa, ma a lungo andare divenne cosa molto controproducente. Le convenzioni comportavano sempre la stipulazione di un numero fisso di monaci per l’abbazia. Gli interessi finanziari dell’abate commendatore richiedevano che tale numero fosse il più basso possibile; e i monaci d’altra parte non avevano nessuna possibilità di far aumentare la somma loro dovuta: così qualsiasi crescita della comunità o qualsiasi sviluppo era fuori questione. Di più, una costante corrente inflazionistica nei secoli XVI e XVII faceva scadere il valore d’acquisto della somma contrattata; per conseguenza gli stessi monaci incorsero spesso nella tentazione di lasciare vuoti alcuni posti nel loro monastero, per poter economizzare meglio le loro scarse risorse.

Non c’è bisogno di dire che una tale atmosfera di perpetua depressione affascinava o richiamava ben poco future vocazioni. Con tutti i migliori sforzi, i monaci non potevano.phpettarsi niente di meglio di un livello abbastanza basso di numero, disciplina ed economia. Restava aperta la possibilità di un vero rinnovamento solo nella abbazie governate da abati regolari o nelle congregazioni dove il sistema e l’autorità della commenda era stato eliminato con successo.

Bibliografia

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L.J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, VIII, Certosa di Pavia, 1989.

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