I Cistercensi

Storia dell’Ordine cistercense

Riforme e Riforma

In nessun’altra epoca della storia della Chiesa si era tanto parlato di riforma come nel XV secolo, ma si fece tanto poco per attuarla. Gli abusi erano altrettanto evidenti quanto la necessità e l’intenzione di correggerli. La causa più ovvia della mancanza di successo di tutti gli sforzi meglio intenzionati consisteva nella debolezza e nell’indecisione del potere esecutivo. Il movimento conciliarista era incapace di coordinare il desiderio universale che aspirava alla riforma, mentre il Papato del Rinascimento, impantanato nella ricerca di successioni dinastiche e nei conflitti della politica italiana, non poteva nemmeno riformare se stesso, pur lasciando che si riformassero realmente i paesi d’oltr’Alpe. Ma anche una curia riformata ed un papa disinteressato ed energico non avrebbero avuto nessuna influenza sui nazionalismi che frantumavano l’Europa in molti piccoli stati reciprocamente ostili e sempre più consapevoli della propria identità, ognuno dei quali era guidato da un forte monarca, che cercava di minimizzare l’ascendente del papa sugli affari interni. Il Gallicanesimo francese si industriava esattamente come la Spagna da poco riunita o la dinastia dei Tudor in Inghilterra di forzare il clero in uno stato di sottomissione al potere secolare.

Tuttavia, l’orizzonte non era così tetro da non lasciare speranza. I rappresentanti più brillanti dell’Umanesimo cristiano dimostravano in modo convincente che la nuova cultura non era affatto incompatibile con la fede tradizionale o con la dimensione religiosa dell’uomo; e il sorprendente successo delle riforme locali o regionali dava una prova dell’entusiasmo religioso di migliaia di persone. Oltre agli Ordini nuovi (ad esempio quelli dei Gesuati del 1360 o dei Gerolimiti del 1373) gli Il osservanti” dell’Ordine dei Francescani riscuotevano altrettanto successo dei più austeri “Minimi”, fondati in Calabria verso il 1457 da san Francesco di Paola. I Benedettini, oppressi dal flagello della commenda, avevano trovato il modo di scampare a tale pericolo abbandonando le strutture abbaziali ed organizzandosi in congregazioni sotto un controllo centrale rigoroso ed una stretta disciplina. Questa politica molto felice venne iniziata da Dom Ludovico Barbo, Abate di Santa Giustina di Padova (1382-1443). Il movimento si diffuse in tutta Italia e, quando vi si aggregò Monte Cassino, nel 1504, lo si denominò Congregazione Cassinese. Lo stesso movimento ispirò i benedettini austriaci di Melk, che propagarono una organizzazione analoga in tutta la Baviera e la Svevia. La Congregazione Benedettina spagnola di Valladolid (1492) combatteva con successo contro la commenda usando le stesse armi adottate in Italia, cioè convertendo le abbazie in priorati, guidati da un priore nominato solo per un breve periodo. In Germania la riforma più conosciuta e la più riuscita fu quella di Bursfeld, vicino a Göttingen, che ebbe inizio verso il 1433 con l’Abate Giovanni Dederoth. Verso il 1530 questa Congregazione riuniva 95 abbazie benedettine, con una buona disciplina; queste abbazie erano disseminate in tutto il paese. Nei Paesi Bassi e nella regione del Reno, venivano alla luce, oltre alle comunità dei Fratelli della Vita comune, molte associazioni di Beghine e di Begardi. Ne risentirono maggiormente l’influenza i Canonici Regolari di Windesheim, ispirati da Gerard Groote; e a loro volta, i Canonici esercitarono una notevole influenza sul movimento cistercense della stessa regione.

Nella seconda metà del XV secolo le condizioni dell’Ordine Cistercense erano, in piccolo, identiche a quelle dell’intera. Chiesa. Non mancavano certo decreti di riforma, ma a quel momento l’autorità del Capitolo generale era talmente ridotta dalla mancanza di partecipanti e talmente limitata dalle frontiere nazionali che il successo di qualsiasi riforma dipendeva più dalle iniziative locali e dalla conduzione d’elle singole autorità che da dichiarazioni più o meno efficaci provenienti da Cîteaux. Infatti, lo stesso abate di Cîteaux era il primo ad approfittare del vuoto di potere creato dall’indebolimento del Capitolo generale. La riorganizzazione di tipo monarchico dei papato e il sorgere degli assolutismi nazionali incoraggiava indubbiamente Cîteaux a rivendicare un controllo più fermo sull’amministrazione dell’Ordine e tali tentativi riscontrarono nella curia un’eco favorevole. Fin dal 1438 Eugenio IV si indirizzava a Jean Picart, Abate di Cîteaux, come all’abate generale. Più avanti, nello stesso secolo, titoli onorifici simili apparvero in molti documenti, fino a che il Capitolo generale del 1499 riconobbe Jean de Cirey come padre supremo dell’Ordine. Non c’era, comunque, nessun tentativo a favore di un cambiamento delle costituzioni dell’Ordine; i provvedimenti straordinari presi dall’abate di Cîteaux erano generalmente confermati dall’autorizzazione del Capitolo.

I gelosi proto-abati, soprattutto gli abati di Clairvaux, guardavano sbigottiti le evidenti ambizioni di Cîteaux. Pierre de Virey, abate di Clairvaux dal 1471 al 1496, seguendo l’esempio di altri suoi predecessori, si batté con tutte le forze, durante tutto il suo governo, contro questa politica di Cîteaux e del Capitolo generale. Alla fine la contesa raggiunse il Parlamento di Parigi e la separazione di Clairvaux e delle sue filiazioni minacciava uno scisma definitivo. A Roma prevalse l’influenza di Jean di Cirey e nel 1489 Innocenzo VIII promulgò una bolla in cui decretava l’unificazione dei seggi abbaziali di Cîteaux e di Clairvaux, tutti e due sotto il governo di Cirey. Questo sconcertante decreto non venne mai attuato. Invece, Virey dava le proprie dimissioni nel 1496 e il suo successore, Jean Foucault, cercò di ristabilire con Cîteaux migliori relazioni.

Indubbiamente, il desiderio più grande di Jean de Cirey era quello di realizzare la tanto necessaria riforma del suo Ordine. Non solo era dotato di una natura ricca di talenti e di una instancabile energia, ma godeva anche del favore di Roma e di Parigi. Luigi XI concedeva a lui e ai suoi successori il titolo di consigliere nato del Parlamento della Borgogna e nel 1484 ebbe il privilegio di essere delegato degli Stati Generali a Tours. Nel 1487 Innocenzo VIII gli affidava una riforma radicale dell’intero Ordine, che richiamasse soprattutto la partecipazione al Capitolo generale, le visite regolari, gli obblighi degli abiti commendatari e l’amministrazione dei tributi e delle tasse all’interno dell’Ordine. Quest’ultimo problema aveva amareggiato le relazioni fra Cîteaux e Clairvaux. Come anticipo del successo della riforma e come segno della propria alta stima, lo stesso pontefice concedeva nel 1489 a Jean de Cirey il privilegio personale di amministrare gli ordini minori e perfino il diaconato, a tutti i Cistercensi.

Il Re Carlo VIII di Francia approvò la richiesta del Papa che sollecitava una riforma religiosa e verso la fine dei 1493 promosse una riunione di vescovi e di autorità di vari Ordini religiosi a Tours. Jean de Cirey svolse un ruolo di primo piano nei negoziati e fece notare che prima di qualsiasi altra cosa, bisognava garantire la libertà delle elezioni abbaziali, la limitazione dei poteri degli abati commendatari e rimuovere l’abuso del ricorso alla giustizia civile. Ma egli sottolineava inoltre che non era sufficiente fare delle dichiarazioni sui principi generali; perché una riforma possa avere successo è necessario programmare delle procedure pratiche e realizzarle in concreto, all’interno di ogni Ordine. Per quanto riguardava i Cistercensi, Jean de Cirey si dichiarava soddisfatto che il movimento di riforma, iniziato già da venti o trent’anni, aveva dato frutto, e che egli era deciso a procedere con la forza là dove persistevano degli abusi.

Il Re Carlo, impegnato nella sua spedizione in Italia, destinata al fallimento, non riuscì a portare a compimento il suo progetto di riforma generale, ma Jean de Cirey, imperterrito, convocò agli inizi del 1494, una riunione di 45 abati francesi nel Collegio san Bernardo a Parigi. Il risultato fu uno schema dettagliato per la riforma dei Cistercensi, i cosiddetti articoli di Parigi, che presentavano 16 paragrafi sui problemi più importanti. In un preambolo, gli abati confutavano e respingevano ogni intenzione di inaugurare delle novità radicali, dato che le riforme non significano l’introduzione di espedienti coniati da poco, ma piuttosto il rimettere a nuovo usi e regolamenti confrontandoli con la vita dei santi padri… Infatti, se ci impegnassimo ad introdurre nuove forme di vita, non sarebbe più una riforma, cioè il ritorno ad un modo più antico di vivere la vita monastica, ma la fondazione di un nuovo ordine religioso”. I partecipanti alla conferenza ammettevano che molti abusi, oggetto delle misure correttive, erano conseguenza della guerra, della peste, dell’intervento dei secolari, del governo di abati incapaci o della corruzione delle comunità, ma si professavano disposti a portare avanti il rinnovamento auspicato: “nell’Ordine intero e in tutte le sue parti, nei membri e nelle autorità, nei problemi di carattere materiale e spirituale”.

Il documento iniziava con delle norme relative all’Ufficio Divino, poi ricordava agli abati i loro obblighi, chiedeva con insistenza che si tenessero i capitoli delle colpe, sottolineava la necessità degli studi, ordinava che si togliessero gli impianti di riscaldamento dai dormitori, prescriveva visite regolari, dava molta importanza alla virtù della povertà e alla eliminazione di ogni fonte privata di reddito o di ogni proprietà individuale, insisteva su di una osservanza rigorosa della clausura, rinnovava le prescrizioni della Benedettina quanto alla amministrazione fiscale, e includeva persino un paragrafo per la riforma delle monache cistercensi. Di interesse particolare era il nuovo statuto sull’astinenza. Dopo il 1475, quando Sisto IV aveva permesso al Capitolo generale di concedere delle dispense dall’astinenza perpetua, delle portate di carne a pranzo erano state autorizzate nei giorni di Martedì, Giovedì e Sabato, eccezion fatta per l’Avvento, la Quaresima, dalla domenica di Settuagesima fino a Pasqua, e nei giorni speciali di astinenza specificati sia dalle leggi ecclesiastiche che da quelle dell’Ordine. Infine, prevedendo una resistenza aperta, il documento ordinava agli, abati di “costruire o di riparare nei loro monasteri delle buone e resistenti prigioni, per poter prevedere delle punizioni rigorose contro i trasgressori o contro coloro che avrebbero rifiutato obbedienza a questa carta di santa riforma”.

Quale appendice importante agli articoli di Parigi nel mese di agosto venne promulgato un insieme di norme per il Collegio san Bernardo di Parigi: era un documento unico nel suo genere, di grande valore, perché illuminava la vita interna e la organizzazione di quella istituzione ancora fiorente in quel tempo per il proseguimento degli studi accademici.

Il Capitolo generale del 1494 lodò ed approvò gli articoli di Parigi ma ne differì l’entrata in vigore fino al Capitolo del 1495, a causa di non meglio specificate “impossibilità” di applicazione locale. Nessuna valutazione dei risultati della riforma può essere fatta in base a una chiara e inconfutabile evidenza. L’Ordine non era in grado di porre rimedio alla causa più grave delle difficoltà, cioè al sistema delle commende, e perciò né la Francia né l’Italia diedero prova di una immediata rinascita. Negli altri paesi, là dove si poté assistere al successo della riforma, il processo era stato iniziato ben prima del 1494, dietro iniziative e ispirazioni locali.

Claudio di Bronseval, segretario dell’abate Edmondo di Saulieu di Clairvaux, ha lasciato ai posteri alcune descrizioni che rivelano le condizioni di alcune abbazie francesi della fine del 1531, che sono molto preziose. Furono stese in un giro di visite regolari in Spagna e in Portogallo: l’abate e il suo segretario erano partiti insieme, ma prima che raggiungessero i Pirenei potettero godere della ospitalità in alcuni monasteri cistercensi di Francia. A La Prée trovarono una piccola comunità, “ma i fratelli erano certamente buoni e pii”. A Benisson-Dieu, i visitatori diedero testimonianza della “grandissima miseria” di quella comunità “dove i fratelli erano totalmente ignoranti: non sapevano né il latino, non conoscevano come svolgere l’Ufficio Divino o il Rituale dell’Ordine, non sapevano niente delle regole del galateo o della educazione civile”. In altrettante cattive condizioni erano gli ambienti materiali della casa. Invece la piccola abbazia di Franquevaux era ben conservata, ma i visitatori vi trovarono un solo religioso che si auto-nominava priore. Poi si venne a sapere che vi era stato invitato solo tre mesi prima dall’abate commendatario e che egli era, tra l’altro, un Francescano, che aveva semplicemente indossato l’abito cistercense senza aver nemmeno fatto un anno di noviziato. Il buon fratello rivelò che altri due monaci avevano legalmente residenza in quella casa, ma uno si trovava fuori, a caccia di conigli, e l’altro era in un prato, alla ricerca di uova. A Valmagne, l’abbazia un tempo grandiosa, vicino a Montpellier, Bronseval tesse le lodi del pio abate commendatario, ma parla dei monaci come di gente indisciplinata e ignorante. Fontfroide, nonostante il lungo governo sostenuto da un abate commendatario, era ancora abitata da 25 monaci, che erano ben disposti, ma “ormai lontani dalle osservanze dell’Ordine”; avevano, per esempio, un dormitorio suddiviso in celle individuali, molte delle quali avevano dei caminetti. Vilielongue aveva una comunità di 12 monaci guidati da un abate regolare, un bell’uomo avanzato negli anni, che, dopo 40 di governo, voleva ormai dare le dimissioni. Ardorel era una casa piccola ma ben costruita, dove l’abate regolare era “un uomo buono e pieno di zelo”.

La più vigorosa riforma del XV secolo ebbe inizio in Castiglia, verso il 1425 dietro l’impulso di un ex-eremita, Martino Vargas. Questo tentativo però condusse alla organizzazione di una congregazione indipendente e verrà esposto più in dettaglio nel capitolo seguente.

La devotio moderna, nei Paesi Bassi, ispirò un certo numero di fondazioni cistercensi nei secoli XIV e XV. Ma se ne è parlato così poco che ancora oggi si può presentare solo una ricostruzione ipotetica. La prima fondazione di questo tipo fu l’abbazia di Eytheren in Olanda, sorta con l’intervento di Ebrach, nel 1342. Varie calamità costrinsero la comunità a trasferirsi a Ysselstein vicino a Utrecht, ad essere ridotta a priorato per poi diventare abbazia-figlia di Camp (1394). La stessa abbazia (Camp) fondò un’altra comunità, nel 1382, che si era stabilita a Marienkroon, e prima era stata una comunità di monache cistercensi in Olanda, ai confini con il Brabante. Nel 1386 sorse il piccolo priorato di Marienhave o Warmond, vicino a Leiden, in quello che era stato un monastero di monache e poi in seguito abbandonato: anche questa comunità era sotto la vigilanza di Camp. La guerra smembrò la vita della comunità e questa venne restaurata nel 1412 dai monaci di Eytheren, e si chiamò da allora Ysselstein (Ijsselstein).

Agli inizi dei XV secolo un sacerdote secolare molto pio, Johannes Clemme, assieme ad alcuni suoi fratelli semplici e poveri fondò una piccola comunità a Sibculo, situata nella regione inospitale di Overyssel, non lontano da Deventer. Nel 1407 abbracciarono la regola di sant’Agostino, ma nel 1412 passarono ai Cistercensi. Tre anni più tardi Sibculo stabiliva un rapporto di visite regolari reciproche con Ysselstein e Warmond e decidevano insieme di seguire il sentiero stretto della povertà, della solitudine e della fedeltà alla Regola. In conformità alla loro esistenza senza pretese sottolineavano l’esigenza di una dieta frugale e di un abito molto povero” e rinunciavano anche all’ambizione di essere eretti in abbazia. Le loro giornate erano incentrate sulla liturgia e sul lavoro manuale; e, ancora, nel loro amore per la solitudine, facevano voto di non uscire mai dal recinto del loro monastero. Limitando rigorosamente il numero della comunità e difendendo strenuamente la libera elezione del loro priore cercarono di parare il colpo dell’influenza esterna, che avrebbe potuto condurre alla corruzione. John di Martigny, abate di Cîteaux (1405-1428) non poteva fare a meno di rendersi conto di alcune innovazioni nel loro stile di vita, ma li riconosceva come piccolo gregge (pusillus grex) non dissimile da quello raccolto attorno all’abate Roberto alla vigilia della fondazione di Cîteaux. È più probabile, tuttavia, che l’ispirazione che spingeva quel movimento era la possente corrente di rinnovamento spirituale che si affermava in tutta la regione, la devotio moderna.

Fu quello il nucleo di un circolo di priorati, in via di sviluppo e in relazione fra di loro, conosciuto come la Congregazione di Sibculo, che fioriva sotto le ali materne della grande abbazia della regione del Reno, Camp. Il Capitolo generale ebbe molto poco a che vedere con questa organizzazione. Fu solo verso la fine del XV secolo che venne riconosciuta legalmente l’esistenza della congregazione; anteriormente a quella data, appaiono solo riferimenti casuali, come quelli del Capitolo generale del 1423, quando si parlò per la prima volta della incorporazione delle due case della Westfalia, Gross-Burlo e Klein-Burlo.

Nel 1446 un evento importante nella vita della nuova congregazione si verificò con la fondazione di Saint-Sauveur (Salvatorsklooster) a Antwerp. Venne alla luce grazie alla generosità di un ricco e pio mercante, Pierre Pot, ma la comunità si formò con il personale di Ysselstein, 8 monaci e 4 fratelli conversi. Saint-Sauveur divenne ben presto il centro fervente di una vita rigorosamente ascetica e nel giro di 40 anni poté fondare altri 4 priorati, tutti collocati nella stessa regione (Mariendonck, Hemelspoort, Marienhof e Bethleem). Nel 1448 Marienhave mandò sette monaci a Waerschoot, dietro richiesta di un devoto cavaliere, Simon Utenhove, che era entrato personalmente in comunità in qualità di fratello converso. La stessa casa di Marienhave poté fondare un altro priorato nel 1465 vicino a Haarlem, Monnikendam.

Nel 1448 Camp incorporò le due case di Gross-Burlo e di Klein-Burlo, due case di Guglielmiti, Eremiti di San Guglielmo di Maleval, entrambe situate nella diocesi di Münster, aggregate contemporaneamente alla congregazione di Sibculo. Le due case, isolate dal resto del loro Ordine, avevano incontrato delle difficoltà di carattere morale e finanziario e dal momento che già condividevano molti usi cistercensi, la soluzione logica del loro problema fu la fusione con i cistercensi. Queste due case guglielmite erano piccole (Gross-Burlo contava solo dieci monaci) ma la loro fusione con la Congregazione di Sibculo aprì per loro un secolo di vita pieno di successo e di prosperità. Entrambe ricevettero da Sibculo il loro priore; il priore di Gross-Burlo, Gerlach von Kranenburg, dovette essere un monaco realmente santo e totalmente dedito alla comunità, perché i suoi contemporanei lo chiamarono un secondo Bernardo.

Nello stesso anno, 1448, Camp assunse la responsabilità di un convento, già comunità femminile estinta a Bottenbroich, nella diocesi di Colonia. Nel 1480 i monaci di Bottenbroich acquistarono e popolarono Mariawald, nella stessa diocesi.

Contemporaneamente, altre forze di rinnovamento erano attive nelle Fiandre. Nel 1414 le grandi abbazie di Villers e di Aulne incorporarono il monastero femminile di Moulins, che stava spegnendosi; là, nello stesso tempo, si impegnarono nella fondazione di una comunità di monaci guidati dall’abate Jean di Gesves, che era stato monaco di Aulne. Un altro monastero di monache, ormai estinto, Jardinet, venne riaperto nel 1430 da monaci di Aulne e di Cambron. Il primo abate di questa comunità fu lo straordinario Jean Eustache de Mons, già priore di Moulins. Egli dovette essere non soltanto un grande asceta, ma anche un direttore spirituale carismatico. Durante il suo governo attrasse a Jardinet 46 monaci e 35 fratelli conversi; nell’anno in cui lasciò la responsabilità abbaziale (1477), la comunità contava 41 membri. Moulins e Jardinet, insieme, resero possibile la fondazione di altre tre case: Nizelle nel 1441; Boneffe, già monastero di monache, nel 1461, e Saint-Rémy a Rochefort nel 1464. Molto diffusa fu l’influenza di Jardinet sotto l’abbaziato di Jean Eustache. Il monastero poté fornire abati ad alcune comunità e confessori a un certo numero di monasteri di monache, e poteva portare avanti dei rapporti intensi e cordiali con i Benedettini di Gembloux e di Saint-Martin a Tournay. Jardinet rimase un monastero fiorente fino agli inizi della rivoluzione dei Tedeschi contro la dominazione spagnola, avvenuta intorno al 1560.

Il flusso straordinario di fondazioni in un’epoca in cui molte abbazie in Francia e in Italia si battevano per la mera sopravvivenza, richiamò l’attenzione del Capitolo generale del 1489; ma anche allora l’iniziativa venne presa da Camp, dove la comunità restava perplessa di fronte alle condizioni legali di un così gran numero di priorati associati. I padri capitolari non si sbagliarono nel rilevare che il modo di vivere di tali priorati era “un po’ diverso dallo stile di vita quotidiano dell’Ordine, comunque, dato che le differenze (deviazioni) erano rese necessarie dalle caratteristiche differenti della regione”, essi non rifiutarono di dare la loro approvazione. Lo stesso Capitolo approvò un insieme di norme, stese in sette paragrafi, per la sola amministrazione della Congregazione di Sibculo. Allo stesso modo, venne riconosciuta ufficialmente la paternità di Camp; si autorizzarono delle riunioni annuali e la legislazione in proprio degli affari della Congregazione: gli statuti, comunque, dovevano essere sottoposti alla approvazione di Cîteaux. Si permetteva alle case di restare semplici priorati e i tre priori in ordine di fondazione (quelli di Ysselstein di Sibculo e di Marienhave) avrebbero dovuto esercitare i doveri e i diritti della visita regolare. I priori sarebbero stati eletti dalle comunità, ma confermati dall’abate di Camp. Molte di queste case erano situate all’interno o alla periferia delle I~ grandi città”, eppure dovevano osservare una rigorosa clausura. Da ultimo, non si sa bene perché, il Capitolo insisteva che i fratelli conversi della congregazione avrebbero dovuto essere chiamati donati o familiares.

Quali erano le circostanze specifiche dell’ambiente che circondava queste insolite fondazioni? Quale programma o quale spiritualità ne spiegava il successo? Mancano fino ad ora degli studi preliminari e si può solo abbozzare un tentativo di risposta, che delle ricerche ulteriori potranno modificare.

Nel caso della Congregazione di Sibculo è molto improbabile che Camp abbia preso l’iniziativa ed abbia fatto delle fondazioni con il personale disponibile della comunità. Le piccole comunità erano con molta probabilità gruppi spontanei di persone affini tra loro, forse dei Begardi che spesso erano oggetto dei sospetti o delle perplessità delle autorità e quindi cercavano soltanto una protezione sotto le ali di Camp. Torna a vantaggio della grande abbazia della regione del Reno il fatto di aver offerto non soltanto un sostegno benevolo, ma anche di aver messo a disposizione alcuni monasteri abbandonati, un tempo abbazie femminili, perché servissero alle nuove comunità. Molti elementi dello stile di vita sembrano attinti dalla ispirazione della devotio moderna: la situazione urbana o sub-urbana, la presenza di un gran numero di laici, diversi dai fratelli conversi tradizionali dell’antico stampo, la preferenza per i priorati più che per le abbazie, le norme di un rigoroso ascetismo ecc.: all’interno dello stile di vita delle comunità, l’ideale cui tendere era stato modellato secondo quello dei Begardi o quello dei Fratelli della vita comune.

Le abbazie fiamminghe menzionate prima ebbero apparentemente un ruolo più diretto nella fondazione di Moulins e di Jardinet. Di fatto, Villers e Aulne avevano un legame più stretto e fecondo con l’associazione delle Beghine; ci sono altre indicazioni sul fatto che i monaci erano ben disposti nei confronti della nuova spiritualità; per esempio, lo dimostra il mantenimento di istituzioni educative a Moulins, Nizelle e Boneffe, che si muovevano secondo lo spirito dell’Umanesimo Cristiano.

Lo spirito di riforma si evidenziava molto in tutta la Germania. Marienrode vicino a Hildesheim aveva vissuto una totale decadenza durante la prima metà del XIV secolo, ma a causa del benefico intervento della abbazia di Riddagshausen, si ebbe una ripresa dopo il 1379, grazie alla successione di abati capaci e pieni di zelo. Così, Heinrich von Berten (1426-1462) autore della notevole Cronaca di Marienrode, restaurò l’economia un tempo fallimentare, ricostruì la Chiesa e aumentò considerevolmente il numero della comunità. Quando assunse l’incarico di abate aveva solo 26 monaci in comunità; durante il suo governo accettò altri 36 nuovi membri. Era un amico del Cardinale Nicola di Cusa (che visitò l’abbazia nel 1450) e lavorò con lui per la riforma della Chiesa in Germania; partecipò al Concilio di Basilea (1438).

Il vigore delle abbazie della Germania divenne evidente dal ruolo attivo che svolsero nella riforma dei monasteri Ungheresi. In questo paese, l’iniziativa venne assunta da Mattia Corvinus (1458-1490), un gran Re, aperto all’umanesimo, che si era rivolto al Capitolo generale Cistercense per avere aiuto al fine di rianimare le comunità “che languivano in condizioni pietose e quasi si estinguevano”. Il Capitolo del 1478 fece appello agli abati tedeschi, che risposero con generose offerte di personale. Almeno 22 abbazie promisero dei rinforzi notevoli di monaci per le comunità ungheresi; Bebenhausen, Ebrach e Heilsbronn espressero la loro disponibilità per fornire “comunità intere con il loro abate”, intendendo con questo almeno 13 monaci. Per preparare la spedizione gli abati tedeschi tennero due riunioni a Wúrzburg e nel 1480 più di un centinaio di monaci si imbarcava a Regensburg sul Danubio per intraprendere il viaggio verso l’Ungheria. I documenti sui dieci anni seguenti attestano chiaramente il lavoro energico dei monaci tedeschi. Uno di essi, Jodoc Rosner, divenne abate di Pilis e ricevette una autorizzazione speciale dal Capitolo generale per visitare e riformare le altre comunità dei paese. Tuttavia si trattò di un successo effimero. Dopo la disastrosa battaglia di Mohacs del 1526, la regione centrale dell’Ungheria venne occupata dai Turchi e per due secoli il paese venne ridotto a un sanguinoso campo di battaglia. Verso la metà del XVI secolo tutti i monasteri cistercensi di Ungheria avevano cessato di funzionare e restarono in una specie di letargo fino a un altro risveglio, che si verificò all’inizio del XVIII secolo.

Nel frattempo la Germania divenne scenario di scontri continui di violenza dopo la riforma di Lutero, che si appellava a una purificazione della Chiesa, indipendente da Roma. La sommossa dei contadini del 1525 segnò solo l’inizio di una intermittente guerra civile e religiosa che infuriò sul suolo della Germania fino al 1648. Molte abbazie cistercensi vennero saccheggiate e bruciate durante le prime fasi della lotta: altre, situate nei territori dei principi protestanti, vennero soppresse con dei decreti. Non c’era uno schema fisso nella procedura: tutto dipendeva dalle disposizioni dei monaci, dall’atteggiamento della popolazione circostante e dalla personalità del principe.

Verso il 1503 la grande abbazia di Ebrach aveva ancora 75 membri, ma il nuovo abate, Johannes Leiterbach, non fece nulla per prevenire l’infiltrazione della nuova mentalità. Durante la Guerra dei Contadini (1525) l’abbazia venne completamente saccheggiata; i monaci fuggirono e 18 non fecero più ritorno, 15 si erano fatti Luterani, come si seppe più tardi, ed alcuni si erano anche sposati. Nella visita episcopale del 1531, quando alla fine venne deposto Leiterbach, si contavano 25 monaci e 3 fratelli conversi; 4 nomi erano indicati come apostati. Più tardi, nello stesso secolo, Ebrach non fu soltanto restaurata, ma divenne anche un centro fiorente di pietà e di arte barocca.

A Bebenhausen (Württemberg), quando moriva l’ultimo abate cattolico, nel 1534, i monaci stessi erano divisi: 20 rimasero cattolici, 18 simpatizzavano per i luterani. I cattolici furono costretti ad andarsene, e cercarono rifugio nei monasteri ancora esistenti in Austria e in Baviera. Le alternanze della guerra permisero loro di fare ritorno nel 1549, quando elessero un nuovo abate: questi venne però deposto e sostituito da un luterano nel 1560. Dopo l’Editto di Restituzione del 1629, i monaci di Salem cercarono di rioccupare Bebenhausen, fino a quando dovettero fuggire davanti agli Svedesi nel 1632. I Cistercensi, ostinatamente, fecero ritorno di nuovo nel 1634, fino a che la Pace di Westfalia del 1648 assegnava la contesissima abbazia ai Luterani. Un destino simile cadde sui monaci di Heilsbronn, Herrenalb, Königsbronn e Maulbronn.

A seguito della avanzata dei Luterani nel Nord della Germania, i monaci furono espulsi con la forza oppure si allontanarono spontaneamente dai loro monasteri. Nel caso di Loccum (Hannover) i monaci continuarono a vivere la loro vita comunitaria accettando gradualmente, il nuovo credo, così da creare una nuova e caratteristica forma di monachesimo luterano. L’orario quotidiano e la vita liturgica rimasero quasi intatti lungo il corso del XVII secolo; anzi, l’abate luterano delegava uno dei suoi colleghi cattolici per rappresentarlo al Capitolo generale del 1601. Nel 1658, si adottava il tedesco come lingua della liturgia monastica, ma non si abbandonò il celibato fino agli inizi dei XVIII secolo. L’abate Gerhard Molan (1677-1722) come esponente della chiesa luterana, di grande prestigio e della più alta reputazione, divenne uno stretto collaboratore di Leibnitz nello sforzo di riunificare le chiese cristiane. Più tardi l’abbazia venne trasformata in un seminario lutèrano ed in questo modo continuò a svolgere e ad assicurare un ruolo di primo piano nella vita spirituale ed intellettuale del luteranesimo in Germania.

Delle 104 abbazie cistercensi che esistevano ancora agli inizi del secolo XVI nelle terre di lingua tedesca, 45 furono vittime della Riforma. Le altre sopravvissero ed alcune ebbero una esperienza di grande prosperità fino alla decisiva secolarizzazione, avvenuta nell’epoca napoleonica. Nel 1573-74 Nicola I Boucherat, abate di Cîteaux, visitava 33 abbazie ancora esistenti, in Germania, nelle Fiandre e in Svizzera, trovando la maggior parte in condizioni soddisfacenti. Il numero significativo dei novizi di molte comunità era eloquente indizio di un promettente futuro. Nel 1629, quando, dopo la felice conclusione della fase danese della Guerra dei Trent’Anni, l’Imperatore Ferdinando II promulgò il suo editto di Restituzione, i Cistercensi tedeschi erano abbastanza forti per recuperare e rioccupare undici case fra le abbazie perdute in antecedenza, ma tutte dovevano essere abbandonate di nuovo dopo la vittoria dei Protestanti, nel 1648.

Negli altri paesi dell’Europa continentale, la Riforma portò alla secolarizzazione di tutte le abbazie della Norvegia, della Svezia, della Danimarca e più tardi dell’Olanda e degli stati del Baltico; le otto abbazie della Svizzera furono ridotte a quattro.

In nessun altro paese la Riforma e la dissoluzione dei monasteri fomentarono controversie tanto accese e tanto durature quanto in Inghilterra. L’analisi scientifica di tutto il materiale degno di fiducia ha chiarito molti e forse la maggior parte dei dettagli storici; e tuttavia resta aperta la dolorosa domanda sui motivi e sulla possibile giustificazione della violenza, della distruzione che li hanno accompagnati. Le valli ora piene di pace, così come la coscienza delle nazioni e degli uomini, ne portano ancora le conseguenze. Pochi osservatori possono restare silenziosi davanti allo spettacolo delle deplorevoli rovine, ma la risposta che se ne dà dipende dalle condizioni di spirito o dalle convinzioni religiose di ogni generazione.

Gli storici sono d’accordo nell’affermare che dalla metà del XVI secolo la vita monastica in Inghilterra lottava sotto il peso di grandi difficoltà: il numero decrescente dei membri, una economia in deficit, una pubblica opinione ostile, il rilassamento della disciplina ecc. Le cause di questi fenomeni sono già state esposte, ma due fattori almeno sembrano più caratteristici per l’Inghilterra. Uno è la assenza del sistema della commenda, l’altro è l’isolamento relativo dell’isola nei confronti delle correnti religiose del continente. Il primo di questi fattori fu principalmente benefico, anche se gli abati inglesi vennero man mano considerati come i proprietari delle istituzioni monastiche, mentre il governo inglese riteneva abitualmente le grandi abbazie come facili fonti di entrate, in qualsiasi situazione di emergenza. Ma l’isolamento dell’isola, reso più grande con la Guerra dei Cento Anni e il Grande Scisma di Occidente, privò i monaci inglesi dell’effetto stimolante che avevano i forti movimenti di riforma in Italia, in Spagna, nei Paesi Bassi o nella regione del Reno.

I Cistercensi in Inghilterra, nel Galles, in Scozia e in Irlanda facevano la stessa esperienza di isolamento delle altre istituzioni religiose. La loro partecipazione al Capitolo generale era eccezionale; la visita regolare dei monasteri era realizzata dagli abati inglesi nominati specificamente dal Capitolo, e quindi i contatti con Cîteaux erano limitati alla sola corrispondenza occasionale e all’invio di qualche contribuzione in danaro. Così, al tempo della dissoluzione, i Cistercensi inglesi non ricavarono nessun beneficio dal fatto di appartenere nominalmente ad una organizzazione di carattere internazionale; dovettero difendersi da soli come potettero.

Tuttavia, non bisogna esagerare la gravità e la diffusione delle difficoltà. Se verso la fine del XIV secolo le abbazie cistercensi inglesi avevano come media solo quindici membri, agli inizi del XVI secolo la cifra era di diciannove. Fra gli abati, si possono ritrovare alcune personalità integerrime e alla vigilia della dissoluzione il livello della vita morale nelle comunità cistercensi era forse più alto che negli altri ordini monastici, ad eccezione dei Certosini. L’esempio più sorprendente fu quello di Fountains sotto il lungo e fecondo governo dell’Abate Arciduca Ugo (1494-1526). Perfino i suoi più gelosi colleghi dovettero ammettere che egli era “un promotore della disciplina, un coltivatore della religione, un vigoroso restauratore delle case in rovina nei nostri giorni: si può affermare con sicurezza che in questi problemi nessun altro abate, nel nostro paese ha così grande esperienza”. Egli godeva di grande stima presso Enrico VII e negli ultimi anni del suo abbaziato aveva ottimi rapporti con il cardinale Wolsey, il potente ministro di Enrico VIII. Egli fu benefattore generoso del Collegio san Bernardo di Oxford ed eresse, tra molti altri edifici aggiunti a Fountains, la grande torre ancora esistente, un monumento degno della liberalità del suo costruttore. Ancora più notevole fu l’aumento del personale della comunità. Quando Ugo divenne abate, c’erano solo 22 monaci nell’abbazia; nel 1520 i religiosi professi erano 52, e tra dì essi 41 erano sacerdoti. La mancanza di documenti impedisce la valutazione del livello della vita spirituale e della disciplina dell’abbazia di Fountains, ma non si può spiegare un aumento così spettacolare del numero della comunità senza supporre un lodevole livello di religiosità e di regolarità monastica.

Nella maggioranza degli altri casi non c’è una sufficiente documentazione per poter accertare in modo attendibile le condizioni generali della vita monastica prima del 1535; dopo tale data, i rapporti dei visitatori mandati dal re non sono molto credibili, dato che avevano proprio il compito di denunciare la diffusione degli abusi nei monasteri. Sembra comunque certo che le mancanze dei cistercensi inglesi non erano a livello di una generale immoralità, ma di una diffusa mediocrità. Quando si avvicinò la fine per quelle comunità, si può supporre che la silenziosa obbedienza con cui i monaci si sottomisero alla volontà del re derivava non soltanto dall’assenza di eroismo, ma anche da una mancanza di fervore e da una scarsa dedizione alla propria vocazione. Comunque, ci si può sbagliare facendo delle generalizzazioni su questo punto. Quando nel 1536 i commissari interrogarono i monaci se essi desideravano chiedere la dispensa dai voti o piuttosto preferivano perseverare nella vita monastica, intere comunità cistercensi optarono per la seconda soluzione. Informazioni di questo tipo sono rare: questo fu il caso almeno di Garendon, Stoneleigh e Stanley, mentre a Netley solo un monaco, e a Quarr due monaci, desiderarono uscire.

Le condizioni locali, buone o cattive che fossero, non fecero differenza quanto alla procedura rigorosamente controllata da Thomas Cromwell, personalità abile e senza scrupoli, ministro plenipotenziario del re Enrico VIII dopo la rottura con Roma. Agli inizi dei 1536 un editto regale sopprimeva tutte le case religiose con meno di 12 membri o con meno di 200 sterline di reddito annuo. 22 case cistercensi, molte delle quali situate nel Galles, furono colpite da questa legge. Gli abati e i priori ricevettero una pensione, mentre i monaci di queste comunità erano lasciati liberi di passare al clero secolare o di essere trasferiti in qualche abbazia rimasta aperta. I documenti che ancora esistono sono pochi e parziali: è perciò impossibile determinare quale fu l’opzione della maggior parte dei monaci cistercensi. Dai cinque esempi citati prima si può desumere che la maggior parte dei membri preferì essere trasferita in altre case dell’Ordine. In alcuni casi, dopo il pagamento di grandi somme, alcune comunità ottennero la grazia e la concessione di riunirsi. Un permesso di questo genere venne concesso a Neath, Whitland, Strata Florida nel Galles, ma la tregua loro concessa durò solo tre anni. Tra i superiori, cui venne riconosciuto il diritto ad una pensione, l’abate di Waverley, Dom Alynge, venne adeguatamente ricompensato e si trasfrì al Collegio Cistercense di Oxford. Dom Austeri, abate di Rewley, ricevette come pensione 22 sterline e si stabilì a Cambridge, per poter “studiare a fondo la parola di Dio”.

Ma la soppressione delle piccole comunità era solo il primo passo di una tattica che conduceva alla distruzione totale della vita monastica? Forse no. Wolsey aveva già attuato un progetto analogo tra il 1524 e il 1528, senza che comportasse implicazioni di quel genere. Ma la facilità relativa con cui poté essere applicato il provvedimento e la mancanza di resistenza, comunque, incoraggiò il governo a procedere oltre, là dove realmente esistevano grandi ricchezze.

L’unica manifestazione di aggressività contro il governo e l’unica espressione di simpatia per i monaci fu il pellegrinaggio di grazia, una serie di sommosse locali che ebbe luogo dall’autunno del 1536 alla primavera del 1537. Un certo numero di case cistercensi, di libera iniziativa o dietro costrizione, ne furono coinvolte; un monaco di Sawley venne creduto autore della canzone di marcia del pellegrinaggio. Ma i ribelli erano organizzati male. I nobili di alto rango rifiutarono di unirsi a loro ed Enrico VIII non ebbe difficoltà a trattare brutalmente gli aderenti al movimento. “Tutti i monaci e i canonici che sono in qualche modo colpevoli … siano impiccati senza ulteriore indugio o cerimonia, perché servano di esempio agli altri” scrisse il re ai suoi agenti. Oltre a molti monaci, sette abati cistercensi vennero giustiziati (Robert Hobbes di Woburn, Thomas Bolton di Sawley, William Thirsk di Fountans, Adam Sedbar di iervaulx, Thomas Carter di Holm Cultram, john Paslew di Whalley, john Harrison di Kirkstead) mentre la sorte di alcuni altri resta sconosciuta.

In un primo tempo si credette che Robert Hobbes, abate di Woburn fosse ucciso, per la sua collaborazione al pellegrinaggio di grazia, ma di fatto morì per la sua fede. Egli aveva prestato giuramento, come richiedeva l’Atto di Supremazia del 1534, ma si pentì e spinse i propri monaci a mantenersi fedeli a Roma. Dopo che i Certosini erano stati giustiziati per lo stesso crimine, egli si rivolgeva così ai propri monaci in Capitolo: «Fratelli, viviamo in un tempo pericoloso; non si è mai sentito parlare di una prova così grave dopo la passione di Cristo» e ordinò la recita quotidiana del salmo 78: «Signore, le nazioni sono entrate nella tua eredità …”

Dopo alcuni incidenti di questo genere venne denunciato a Cromwell da un ex-monaco, il curato della parrocchia di Woburn. Robert Hobbes era anziano, aveva una salute malferma: eppure venne processato e giustiziato, con due monaci. Woburn venne completamente distrutta, ma la quercia a cui venne impiccato l’abate, secondo le testimonianze che vennero tramandate, rimase come testimonianza del suo martirio, fino ai primi decenni del secolo XIX.

Dovremmo ricordare, tra i monaci giustiziati unicamente a seguito delle loro convinzioni religiose e non per aver partecipato ai moti di protesta, almeno George Lazenby. Quando a metà del 1535 un predicatore della nuova dottrina pronunziò nella chiesa abbaziale un sermone contro il papa, Lazenby si alzò e pubblicamente lo sfidò. Quando più tardi venne sottoposto a un interrogatorio sull’incidente, egli “rese grazie a Dio perché gli aveva dato l’audacia e lo spirito di parlare come aveva fatto”. Venne portato a Middleham Castle, dove, di fronte alla morte, egli difendeva ancora, come testimoniò il magistrato “a voce così alta e così forte quell’idolo e quella sanguisuga installata a Roma, in modo tale che non mi è mai capitato di vedere nella mia vita”. Nel corso del suo interrogatorio egli ammise di aver avuto dei rapporti frequenti con i Certosini di Mount Grace, inflessibili come lui; là egli aveva avuto la visione della Beata Vergine. Non sono rimasti documenti espliciti sulla sua esecuzione, ma un monaco anziano della sua comunità, Jerwaulx, Thomas Madde, disse di lui, secondo quanto venne messo a registro: “di essere riuscito ad asportare e a nascondere la testa di uno dei fratelli della sua comunità, e che aveva subito la morte per non aver voluto arrendersi a sua Maestà”.

Il pellegrinaggio di grazia, e le costose avventure intraprese dal Re all’esterno, giustificarono la pressione crescente che si andò aggravando sulle rimanenti abbazie, perché cedessero spontaneamente tutte le loro proprietà al governo. Gli abati, terrorizzati, rendendosi conto che si trattava della loro ultima possibilità di scendere a negoziati con Cromwell, uno dopo l’altro acconsentirono. Verso la fine del 1539 la vita monastica scomparve dall’Inghilterra e immediatamente ebbe inizio nella chiesa inglese la totale demolizione delle chiese e dei chiostri: i nuovi proprietari volevano essere sicuri del fatto che, anche nel caso che il clima religioso subisse eventualmente delle trasformazioni, i monaci non avrebbero mai potuto ritornare. Uno di essi ebbe a dire schiettamente: “le tane sono state distrutte: solo gli uccelli potranno ricostruire qualcosa qui”. I vasi preziosi e i gioielli impiguarono il tesoro del re insieme ai manoscritti più preziosi delle biblioteche. I mobili e tutte le cose che potevano essere asportate, dalle pietre del pavimento ai paramenti di chiesa e ai candelabri, tutto venne venduto all’asta sul posto. Vennero risparmiati solo gli edifici che sembravano poter essere di utilità immediata. Sir Arthur Darcy, incaricato dello smembramento di Jervaulx, descrisse con parole eloquenti le bellezze di quella abbazia cistercense, che si adattava perfettamente come scuderia reale. Quanto alla destinazione successiva dei beni confiscati, alcune varie soluzioni di legge vennero proposte e restarono per un po’ fluttuanti ma alla fine tutte le proprietà monastiche finirono nelle mani della nobiltà, sempre affamata di proprietà terriere. I nuovi padroni divennero i più devoti sostenitori della politica ecclesiastica di Enrico VIII. Fu questa situazione che rese assolutamente irrealizzabile la restaurazione della vita monastica, con il governo della regina Mary.

Gli abati che accondiscesero alla dissoluzione vennero ricompensati con la concessione di laute pensioni. John Ripley, abate di Kirkstall, ricevette 66 sterline annue e gli venne permesso di dimorare nella portineria del suo monastero. I monaci ebbero meno fortuna, anche quando non ricevettero imputazioni a loro carico. La pensione media di cui vennero gratificati consisteva in 5 sterline, che bastavano appena per vivere. La maggior parte di coloro che avevano un’età media, cercarono una posizione entrando nel clero secolare. I monaci delle comunità dove l’abate o altri membri della casa erano stati coinvolti in qualche atto non conforme ai decreti del re, vennero licenziati senza nessun sussidio per il loro futuro. Fu questo il caso dei venticinque membri della comunità di Whalley, anche se alla fine la maggior parte riuscì a godere di qualche nomina ecclesiastica. A Furness 33 monaci vennero lasciati senza nessuna pensione e, secondo le testimonianze di validi documenti, solo 6 trovarono un lavoro. Naturalmente, non c’era stato nessun provvedimento in favore degli innumerevoli servi o operai dei monasteri.

In Scozia, caduta fermamente sotto il controllo di John Knox e dei suoi Presbiteriani, la confisca dei beni monastici iniziò nel 1560, ma fu solo nel 1587 che il Parlamento Scozzese trasferì tali ricchezze alla corona. Nel XVI secolo la maggior parte delle case cistercensi era governata da abati commendatari e sotto ogni aspetto si trovava in condizioni più deboli dei monasteri inglesi. L’abbazia più grande, quella di Melrose, contava ancora 31 membri nel 1534, ma la disciplina monastica, soprattutto in materia di povertà, era ben lungi dall’essere soddisfacente. Verso la metà dello stesso secolo le condizioni si erano aggravate ancora. L’abbazia si trovava a quel tempo sotto il governo di un figlio illegittimo del Re James V. Egli aveva l’obbligo di tenere in comunità almeno 16 monaci, ma si rifiutava di attuarlo; si appropriò perfino della somma messa da parte per il restauro del chiostro, ridotto in rovina.

Nel 1565, l’abate commendatario dell’abbazia scozzese di Dundrennan, Edward Maxwell, aveva semplicemente fatto del monastero una sua proprietà personale e si era sposato, ma si dimostrava disposto a concedere delle pensioni a coloro che già erano stati suoi monaci. I monaci di Balmerino furono meno fortunati: venne promessa una pensione solo a quei monaci, sui 15 che facevano parte della comunità, che si dimostravano disposti ad abbracciare la nuova fede, gli altri sarebbero stati espulsi senza nessun compenso. In tali circostanze è probabile che la maggioranza dei monaci abbia aderito ai Presbiteriani, almeno secondo la narrazione della cronaca.

In Irlanda, la dissoluzione non poté essere realizzata con la forza se non all’interno del territorio che cadeva sotto il controllo inglese, il cosiddetto “Pale”: Dublino e le sue, vicinanze. Sfortunatamente, tale territorio comprendeva anche Mellifont e Saint Mary’s Abbey, le sole due abbazie che praticavano una disciplina regolare. Molte altre case, al di là di questi limiti territoriali, continuarono a sussistere, spesso in forma clandestina, fino alla sanguinosa invasione di Oliver Cromwell, nel 1650.

In previsione della dissoluzione, venne elaborato un accordo privato a Holy Cross, vicino a Tipperary, ad opera dell’abate regolare, William Dwyer. Fin dal 1533 molte delle terre possedute dall’abbazia erano state date in affitto per tempi molto lunghi alle genti del vicinato, che erano ben disposte verso i monaci. Poi, nel 1534, Dwyer diede le dimissioni in favore di un laico sposato, Philip Purcell, che assunse il titolo di “Prevosto” di Holy Cross. Questi non solo era disposto a condividere con Dwyer le entrate del monastero, ma permetteva ai monaci di restare nell’abbazia. Questi ultimi vennero costretti a uscire e a disperdersi solo nel 1563, poco dopo che la Regina Elisabetta aveva fatto donazione dell’abbazia a suo cugino, il Conte di Ormond. In questo modo l’abbazia non fu mai ufficialmente soppressa; infatti, il titolo abbaziale, legato al nome di vari titolari, continuò fino al 1751.

In Francia, il governo del re, che già controllava strettamente i benefici ecclesiastici, resistette con fermezza alla diffusione del Calvinismo, ma sotto la debole amministrazione di Caterina De’ Medici e del suo fiacco Principe ereditario, gli Ugonotti guadagnarono sensibilmente terreno. Le intermittenti Guerre di Religione (1559-1598) apportarono distruzione e miseria tale che trovano paragone solo nella devastazione prodotta dalla Guerra dei Cento Anni. I monasteri, che, come sempre, erano ritenuti ricchi e pieni di provviste, divennero ancora una volta bersaglio delle soldatesche indisciplinate di entrambe le fazioni. Non fu però la sola distruzione fisica che minacciava i monaci. Nel 1561, nella riunione degli Stati Generali di Pontoise e nella successiva Conferenza di Poissy si levarono reclami possenti in favore della secolarizzazione completa delle proprietà monastiche per poter sovvenire alle necessità del governo, che si trovava in cattive acque a causa di mancanza di fondi per la guerra. Sapendo ciò che era accaduto in Inghilterra, il clero, terrorizzato, approvò le leggi che sollecitavano delle ingenti contribuzioni; alla fine queste continuarono ad essere richieste sotto la forma di libere offerte annuali. Molte abbazie, già impoverite, incluse quelle dei cistercensi, si videro costrette a vendere parti delle loro proprietà, tra le più preziose, perché non erano in grado di pagare in altro modo le tasse loro assegnate.

Nel frattempo, l’amministrazione centrale dell’Ordine era giunta a un vero e proprio punto morto. Durante la guerra, il Capitolo generale si riunì solo sette volte (1560, 1562, 1565, 1567, 1573, 1578, 1584) con la partecipazione di pochi abati; nel 1560 solo 13 potettero giungere a Cîteaux. La stessa casa madre era costantemente in pericolo. Diverse volte l’abbazia venne saccheggiata: nel 1574 dall’esercito del Principe di Condé, nel 1589 da Guglielmo di Tavannes, e nel 1595, dai soldati del Maresciallo Biron. L’ultima devastazione del 1589 fu la peggiore. Gli Ugonotti trascorsero una settimana distruggendo tutto, profanando persino le tombe situate nella Chiesa. I danni ammontarono a 600.000 libbre. La registrazione dell’incidente, così come venne riportata dai magistrati di Digione, permette ancora oggi di avere una visione preziosa di quello che era ancora a quel tempo una abbazia tanto grande e popolata. Si credeva che la parte centrale degli edifici monastici poteva ancora essere difesa: infatti, un contingente di un centinaio di soldati mercenari, assoldati dall’abbazia, era installato all’interno delle mura. Ma quando il nemico si avvicinò, questa truppa di mercenari si volatizzò senza nemmeno esporsi alla battaglia. La maggior parte dei monaci, terrorizzati, li seguì. Il personale dell’abbazia contava a quel momento 254 persone: 60 monaci professi, 12 novizi, 30 fratelli conversi e molti familiari, servi e operai. Il monastero vero e proprio contava 158 stanze, ed era circondato da 16 laboratori per le varie arti e mestieri, necessari per il mantenimento dell’abbazia. Le stalle contavano 162 cavalli.

Il saccheggio e la distruzione furono sistematici. Alcuni dei monaci e dei fratelli che caddero nelle mani degli assalitori vennero torturati, e costretti ad indicare ed aprire tutti i possibili nascondigli dove potevano essere riposti oggetti di valore. Gli oggetti raccolti, comprese le campane e le lamiere di piombo del tetto della Chiesa, furono portate via su 300 carri. 135 altari della chiesa, con tutti i dipinti e le statue, furono completamente demoliti. Anche le otto grange situate nelle immediate vicinanze dell’abbazia furono ugualmente devastate. Secondo valutazioni moderate, almeno la metà delle abbazie cistercensi francesi subirono una sorte simile.

Contemporaneamente, i calvinisti tedeschi stavano combattendo la loro guerra contro i cattolici spagnoli. Le abbazie divennero nuovamente il bersaglio favorito dei nuovi iconoclasti. La rinascita monastica del XV secolo trovò così una rapida conclusione. La vita monastica divenne tanto precaria persino nelle Fiandre, a tal punto che molte comunità cercarono rifugio all’interno delle città fortificate. Nel 1566 la più ricca e la più grande abbazia del paese, Les Dunes, venne distrutta. Nel 1578, quando la ricostruzione era quasi finita, i Calvinisti l’assalirono di nuovo e la devastarono. Dopo questo disastro non ci fu più ricostruzione. Persino le pietre dell’abbazia vennero asportate perché servissero alla fortificazione di Dunkirk e Nicuport. I monaci sopravvissuti trovarono riparo dapprima in una delle loro grange, Bogaerde, e poi, nel 1627, la comunità dell’abbazia si trasferì permanentemente a Bruges, dove i monaci occuparono un edificio che un tempo era stato proprietà della già soppressa abbazia di Ter Doest.

Quando finalmente terminarono le guerre di religione, gli annali cistercensi conclusero la storia di quell’epoca tragica con l’indicazione della scomparsa di 180 abbazie, divenute vittime, senza speranza di ricostruzione, della cupidigia e della violenza.

Bibliografia

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L.J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, IX, Certosa di Pavia, 1989.

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