I Cistercensi

Storia dell’Ordine cistercense

Privilegi e sviluppi amministrativi e giuridici

Agli inizi, Cîteaux, in netto contrasto con Cluny, non pensava né a immunità fiscali né all’esenzione dalla giurisdizione episcopale. I fondatori del Nuovo Monastero avevano fatto voto – con la loro concezione rigorosa della povertà – di vivere esclusivamente dei frutti del loro lavoro e, fino a quando non furono intaccate le osservanze della vita monastica, non avevano avvertito la necessità di rinunciare all’obbedienza dovuta ai vescovi diocesani. Eppure, nel giro di alcuni decenni l’Ordine era ben incamminato verso una condizione di pieni privilegi sia in questioni finanziarie che giurisdizionali. Il cambiamento non venne affrettato dalla trasformazione degli ideali o degli atteggiamenti, ma dalla crescita esplosiva delle istituzioni. La successione rapida delle nuove fondazioni e l’aumento senza precedenti del numero dei membri dell’Ordine veniva a gravare a tal punto sull’economia di ogni casa che si accettò con infinita gratitudine qualsiasi esenzione o aiuto finanziario. Similmente, la difesa dell’unità dell’Ordine e la necessità di vegliare su una effettiva amministrazione della rete sempre in espansione delle case dipendenti, non sembrava raggiungibile senza una limitazione dell’autorità diocesana. La facilità e la rapidità con cui l’Ordine poteva conseguire immunità ed esenzioni chiaramente attesta il fatto che i Papi consideravano la concessione di questi favori ragionevole in vista dei meriti dell’Ordine, ed anche come una giusta ricompensa per i servizi che l’Ordine realizzò a vantaggio del Papato.

L’esenzione dalle decime, che era la fonte tradizionale delle entrate del clero, facilitò da un lato lo sviluppo dell’Ordine, ma alla fine divenne la radice di accanite gelosie e di aperte ostilità nell’ambiente ecclesiastico. Fin dall’età carolingia le decime erano considerate ricompensa per i servizi pastorali e il loro ammontare era suddiviso in tre o quattro parti: una per il Vescovo, una per il basso clero, una per il mantenimento della Chiesa e, alla fine, qualcosa era riservato per i poveri. Sebbene per loro natura le decime erano raccolte in favore del clero secolare, tuttavia, alla fine i monasteri, e perfino i proprietari laici, se ne impossessarono. Uno dei principali punti della riforma gregoriana era costituito appunto dalla sottrazione delle decime ai proprietari laici e ai monasteri. Lungo il corso dell’undicesimo secolo queste decisioni vennero più volte approvate in numerosi sinodi, ma rimase molta ambiguità a proposito delle decime dei monasteri. Sembrava che si potessero giustificare tante eccezioni perché i sacerdoti costituivano, sempre di più la maggioranza del personale dei monasteri ed alcuni di essi, di fatto, esercitavano dei servizi pastorali. È vero che in certi casi, il possesso delle decime da parte dei monasteri era basato su usanze antichissime o su privilegi concessi dai pontefici. Tuttavia, i riformatori della vita monastica dell’undicesimo e del dodicesimo secolo avevano rinunciato, unanimemente, a qualsiasi rivendicazione sulle decime ed avevano deciso che le loro fondazioni vivessero grazie al lavoro manuale dei monaci. I primi regolamenti di Cîteaux a questo proposito sembravano riecheggiare le parole con le quali l’Abate Odone dell’Abbazia di San Martino di Tournai avrebbe dichiarato nel 1092 – fra molte altre cose – “che era stato deciso di non accettare né altari né chiese né decime, ma di vivere unicamente del frutto del lavoro manuale… perché tali fonti di guadagno devono essere versate soltanto ai chierici e non ai monaci”.

Dopo la rinuncia alla riscossione delle decime, i Cistercensi dovevano affrontare l’altro.phpetto dello stesso problema: se i monaci dovevano o no pagare le decime di quanto possedevano. Molte fondazioni erano fatte in luoghi cosiddetti “deserti”, in terre vergini fino allora ed incolte; le decime non erano mai state pagate e quindi la questione in sé, all’inizio, non suscitava alcun inconveniente. Anche quando le donazioni di terre comprendevano proprietà che in precedenza erano state tassate, la povertà così evidente dei Cistercensi e la durezza degli inizi – come di pionieri – giustificava l’esenzione dalle decime. Infatti, secondo la testimonianza di molti documenti del dodicesimo secolo, i vescovi ed altri collettori di decime esimevano le nuove fondazioni da tali oneri fiscali. Nel 1132 questa politica, ormai prevalente, riceveva una ratifica ufficiale in una bolla di Innocenzo II che, in segno di gratitudine verso san Bernardo, dichiarava che nessuno avrebbe mai dovuto riscuotere decime dalle abbazie dell’Ordine. Tutti riconoscevano la ragionevolezza di un tale provvedimento. Il documento di fondazione del monastero di Bonnefont (1136) faceva notare: “nessuno tra i Cistercensi riceve decime o tasse, perciò nessuno può riscuotere niente, né domandare né accettare qualcosa da loro”.

Ma dei gravi problemi vénnero presto alla luce nelle zone in cui alcune abbazie cistercensi continuarono ad espandersi, quasi contemporaneamente, accettando l’integrazione di terre che erano già state tassate in precedenza; l’ammontare delle decime che riceveva il clero diocesano diminuiva considerevolmente e rendeva quasi impossibile il mantenimento di alcune chiese rurali. Nel 1156, in risposta a molte lamentele, Adriano IV faceva con cura una distinzione tra le terre che i Cistercensi avevano ricevuto in donazione fin dall’inizio e che avevano essi stessi bonificato (novalia) ed altre donazioni, di terre precedentemente tassate. Egli decretò che, di conseguenza, bisognava distinguere: l’Ordine poteva continuare a godere della immunità concessa in, precedenza sulle terre così dette novalia, ma che ì monaci avrebbero dovuto pagare le decime sui possedimenti della seconda categoria.

Alessandro III (1159-1181), un altro Papa che era profondamente in debito verso l’Ordine, era ritornato verso l’interpretazione originale e più ampia di questa immunità, ma più volte aveva ammonito l’Ordine: «coloro la cui attenzione doveva essere rivolta verso il cielo, dovevano sforzarsi con tutti i loro mezzi di porre un limite alla loro espansione sulla terra». Un richiamo meno raffinato si trova in una lettera di Pietro di Blois, indirizzata al Capitolo generale prima del 1180. Egli affermava: «Le preghiere e le lingue di tutti gli uomini avrebbero gareggiato per lodare la vostra santità, se voi non aveste rubato quello che non era vostro… Perché i diritti di altre persone devono essere messi in pericolo se le terre sono entrate in vostro possesso…? Se il Papa, come segno di una speciale indulgenza, ha dato a voi un privilegio in un momento in cui il vostro Ordine si rallegrava nella povertà… ora, quando i vostri possedimenti si sono moltiplicati fino a diventare infiniti, questi privilegi devono essere considerati come strumento di ambizione». Il Capitolo generale del 1180 ammetteva la gravità delle accuse e «in vista dei grandi scandali che si sollevano giorno dopo giorno riguardo all’esenzione dalle decime» ordinò che venissero pagate senza ulteriori ritardi o resistenze. Il Capitolo del 1190 prese misure ancora più drastiche contro l’evidente cupidigia di alcuni abati e proibì per il futuro l’acquisto di terre. Tali misure evidentemente non erano sufficienti allo scopo che si prefiggevano, perché nuove accuse giungevano nel 1213 fino ad Innocenzo III. Il Vescovo di una popolazione ungherese, di Pécs, si lamentava che i Cistercensi nella sua diocesi continuassero ad espandere le loro vigne e, mentre da una parte rifiutavano di pagare le decime, dall’altra vendevano vino con grande profitto. Sotto il peso di queste ed altre simili accuse, il Quarto Concilio del Laterano, nel 1215, regolò per sempre il pagamento delle decime. Secondo la nuova legislazione, le novalia e tutte le proprietà possedute prima del 1215 e coltivate dagli stessi monaci per sovvenire alle necessità del monastero, restavano esenti, come prima; ma le terre acquistate recentemente, senza fare differenze tra i mezzi e le finalità della coltivazione, sarebbero state sottoposte a tassazione. Dopo quella data sempre più numerose furono le terre cistercensi che vennero affidate alla coltivazione di contadini ed affittuari; allora Onorio III, nel 1224 estendeva il privilegio alle terre che anche anticamente erano state possedute dai Cistercensi, ed erano in seguito passate ad altri, non più coltivate dai fratelli conversi dell’Ordine. Allo stesso tempo, venivano esentati i giardini, i frutteti e le pescherie. Alcuni anni dopo, (1244), Innocenzo IV aggiungeva alla lista boschi, miniere di sale, mulini, lana, latte e bestiame minuto. A quell’epoca l’espansione delle proprietà dei Cistercensi nell’Europa dell’Est era ormai finita. L’economia dei monasteri viveva una svolta verso la commercializzazione e il problema delle decime perse molto della sua primitiva urgenza.

In conformità con la più antica legislazione dell’Ordine, le abbazie cistercensi rifiutarono di accettare le decime o altre simili fonti di entrata di tipo ecclesiastico, e le infrazioni a questa regola rimasero sporadiche fino al 1147, anno in cui la Congregazione di Savigny venne incorporata all’Ordine. Molte delle abbazie integrate erano già in possesso di quelle entrate “proibite” e continuarono a goderne, con la clemenza del Capitolo generale. Il loro esempio divenne contagioso: verso la fine del secolo molte abbazie cistercensi divennero regolarmente detentrici di decime: le raccoglievano e le usavano a loro profitto.

Un problema dibattuto in maniera pressoché identica, ma infinitamente più complesso per la sua stessa natura, fu il privilegio dell’esenzione dall’autorità diocesana. Anche in questo campo, i fondatori di Cîteaux non avevano nessuna intenzione di seguire l’esempio di Cluny; perciò tutte le prime fondazioni vennero realizzate in pieno rispetto nei confronti dei diritti dei vescovi. Di fatto, si può dire che l’appoggio pieno di entusiasmo che riscossero i Cistercensi dalla gerarchia, in quegli anni, derivava forse anche dalla sottomissione dei monaci ai rispettivi vescovi. Il “Privilegio Romano” di Pasquale II nel 1100 era solo un documento che, in nome della protezione papale, proteggeva i monaci da una indebita interferenza, inopportuna e indiscreta, nella vita interna dei monasteri. Più significative furono le Bolle posteriori che approvavano la Carta di Carità, poiché eliminavano automaticamente, riconoscendo la Costituzione dei Cistercensi, la supervisione degli Ordinari sull’elezione degli Abati così come i diritti di visita sulle abbazie. Certamente Bernardo era in grado di usare la propria influenza per estendere i privilegi dei Cistercensi, ma nel suo “De Consideratione” indirizzato a Eugenio III, egli invece si scagliò contro coloro che nutrivano tali ambizioni. A quell’epoca Innocenzo II aveva esonerato gli abati cistercensi dalla partecipazione ai sinodi diocesani (1132), e nel 1152 Eugenio III permetteva che i Cistercensi continuassero a svolgere i loro servizi in favore della Chiesa o della vita monastica anche nelle regioni scomunicate. Alessandro III, che aveva dimostrato una gran buona volontà verso l’Ordine in materia di decime, nel 1169 garantiva un pieno riconoscimento degli abati cistercensi anche se gli ordinari del luogo rifiutavano di benedirli, ed egli proibì ai vescovi di esercitare delle pressioni sull’Ordine con la minaccia della scomunica.

Tutti i privilegi concessi anteriormente furono sintetizzati ed estesi ulteriormente nel 1184 in una bolla pontificia, promulgata da Lucio III, il quale esonerava tutti i Cistercensi e le loro abbazie dall’autorità dominativa e coercitiva dei loro Ordinari. Questo non fu l’ultimo documento emanato nel processo graduale che condusse successivamente all’esenzione più completa: la responsabilità crescente dell’Ordine nei confronti della sollecitudine pastorale verso i contadini e i paesani che cadevano sotto l’amministrazione feudale dei Cistercensi, richiese delle altre chiarificazioni legali più esplicite. Il diritto di predicare e di amministrare i sacramenti divenne una causa perenne di conflitto, come lo era d’altro canto la crescita del prestigio sociale degli abati, l’uso delle insegne episcopali, il potere di conferire gli ordini minori e le competizioni per i diritti di precedenza nelle varie funzioni pubbliche. La progressiva autonomia degli abati nei confronti della gerarchia del clero secolare fu in certa misura infelice e negativa per entrambe le parti. Le scissioni, e perfino le inimicizie tra i vari gradi della gerarchia del clero favorirono l’intervento dei secolari, e sfociarono in una spietata spoliazione delle abbazie, attraverso tasse di confisca dei beni o con l’imposizione di abati commendatari.

Con il cambiamento della posizione dell’Ordine in seno alla Chiesa, fu necessario che la costituzione giuridica dei Cistercensi subisse delle importanti modifiche. Uno dei motivi più ovvi che richiese una messa a punto fu il seguente: la Carta di Carità non poteva prevedere e prendere misure, in anticipo, per tutti i problemi che erano connessi con l’espansione geografica dell’Ordine. Si potrebbero sintetizzarne tutti questi problemi, per brevità, in questo modo: la debolezza del Capitolo generale; l’emergere delle “linee” o “filiazioni” organizzate e condotte con fermezza dai “proto-abati” e nei continui tentativi degli abati di Cîteaux di sfruttare le circostanze per aumentare il proprio potere.

Fin dalla metà del dodicesimo secolo era ben evidente che il Capitolo generale annuale era molto inferiore, quanto al numero dei presenti, all’autentica assemblea generale di tutti gli abati dell’Ordine. I pericoli, le spese, il tempo necessario impediva alla maggioranza degli abati delle case fondate fuori dalla Francia di prendervi parte; ed è difficile credere che una sessione di media importanza contasse più di un terzo di tutti gli abati cistercensi. Di conseguenza, il Capitolo non era informato a sufficienza delle condizioni locali di certe regioni, e perciò non era in grado di prendere delle misure adeguate né di imporre delle efficaci misure correttive. Il personale sempre diverso del Capitolo rendeva molto difficile portare avanti con continuità una linea di condotta consistente o una politica intelligente; molte delle decisioni erano purtroppo, ed inevitabilmente, prese a caso e contraddittorie fra di loro. Una tale debolezza venne bilanciata soltanto dalla mancanza di una registrazione adeguata e da una effettiva promulgazione delle decisioni. La carenza di autorità venne colmata, con spontaneità e facilità, dai padri immediati, che in ultima istanza dipendevano da uno dei cinque proto-abati. Questi abati (i superiori delle abbazie di Cîteaux, La Ferté, Pontigny, Clairvaux e Morimond) conservavano una attenta supervisione e vigilanza sulla coesione delle rispettive filiazioni e, inversamente, gli abati delle case figlie si rivolgevano a loro per avere delle direttive. Questo fu vero soprattutto in occasione dei Capitoli generali; in quei frangenti, la ben disciplinata “famiglia” di Clairvaux, che superava in numero tutte le altre filiazioni, controllava facilmente lo svolgimento dei lavori. Sebbene la versione originale della Carta di Carità non avesse riconosciuto come legali né i “proto-abati” né le loro filiazioni, che non godevano di un riconoscimento giuridico quali entità autonome, le ultime modifiche apportate a questo documento alla fine concedevano dei poteri considerevoli ai primi quattro abati e davano loro il potere di deporre l’abate di Cîteaux e di governare la casa madre durante tutto il tempo in cui la sede abbaziale fosse stata vacante. Un sospetto reciproco sempre crescente, delle tensioni e delle periodiche ostilità tra gli abati di Cîteaux e i loro quattro principali colleghi, così come la contesa per il controllo del Capitolo generale, fu il risultato deplorevole di tali ambiguità giuridiche.

Se è possibile fare affidamento ad una tradizione molto antica, il primo clamoroso conflitto tra Cîteaux e Clairvaux avvenne nel 1168, quando Alessandro, abate di Cîteaux, appena eletto, visitò Clairvaux e depose l’abate Goffredo perché la sua condotta era degna di biasimo”. Il Capitolo generale appoggiava Alessandro, ma Goffredo fece ricorso a Roma e lo scandalo venne sedato soltanto dopo lunghe e difficili negoziazioni. Nel 1202 sorse un nuovo conflitto tra Cîteaux e i proto-abati, che raggiunse l’apice con la deposizione dell’abate Guy, nel 1213. Il problema stava per essere sottoposto al IV Concilio del Laterano nel 1215, quando intervenne Innocenzo III e sostenne la posizione dell’abate Arnold Amaury di Cîteaux, senza tuttavia rimuovere le cause fondamentali del conflitto. La riconciliazione del 1202 fu seguita da un altro scoppio di ostilità sotto l’abbaziato di John di Cîteaux (1236-1238) un monaco inglese, già abate di Boxley, che cercò, ma senza riuscirvi, di far pagare i debiti di Cîteaux, che ammontavano a 4.000 marchi, dal Capitolo generale.

Questi incidenti, dolorosi ma conclusi senza troppe lacerazioni, furono soltanto dei preludi al conflitto che scoppiò tra Cîteaux e Clairvaux nel 1263-1265 e che, per la prima volta, mise a seria prova le forze di coesione dell’Ordine. I protagonisti del dramma furono gli abati Giacomo di Cîteaux (1262-1266) e Filippo di Clairvaux (1262-1273), entrambi eletti nello stesso periodo, entrambi caratteri forti, inflessibili, pieni di risorse, entrambi decisi a dare una sistemazione definitiva ai sempre ricorrenti conflitti in favore delle proprie posizioni e decisioni. Le ostilità cominciarono a presentarsi al Capitolo generale del 1263, a proposito della organizzazione dei Definitorio. Tale organismo era emerso la prima volta nel Capitolo generale del 1197 come comitato esecutivo incaricato di preparare il Capitolo generale e la formulazione dei suoi statuti. La composizione dei Definitorio non fu mai precisata, né lo fu l’autorità legale di cui godeva, prima dei 1265; fino a tale data la questione dei membri e della funzione era stata oggetto di trattative sempre un po’ tese tra Cîteaux e i proto-abati. Agli inizi del Capitolo del 1263, vennero mossi dei rilievi sulla legalità dell’elezione di Dom Giacomo di Cîteaux e i reclami sollevati dal suo rifiuto di appoggiare le nomine dei definitori proposti dai proto-abati crearono un’atmosfera tesa fin dal principio. Ben presto arrivò la comunicazione che Dom Filippo era stato eletto Vescovo di Saint Malo, ma questi, sospettando che si trattasse soltanto di una manovra per toglierlo dalla scena, rifiutò di accettare l’elezione e decise invece di recarsi a Roma per presentare personalmente le proprie lagnanze al Papa Urbano IV. Dom Giacomo gli ordinò di ritornare sotto pena di scomunica; ma Dom Filippo continuò il proprio viaggio fino a Roma, dove il Papa non soltanto accettò le sue ragioni e lo esonerò dall’assumere l’episcopato, ma nominò inoltre, in data 15 Marzo 1264 Nicola, Vescovo di Troyers, Stefano, abate dell’abbazia benedettina di Marmoutier e Goffredo di Beaulieu, il confessore domenicano del Re Luigi IX, come visitatori straordinari per fare delle ricerche sulle radici del conflitto. Il lavoro della commissione fu un autentico insuccesso, come già lo erano stati i ripetuti interventi dei Re, san Luigi, che era grande amico e benefattore dell’Ordine. Accecato dall’odio e dalla sfiducia, appoggiato dal permesso del sommo Pontefice, Dom Filippo si rifiutò di partecipare al Capitolo generale del 1264, sospettando tradimento e forse un imprigionamento a Cîteaux. La morte di Urbano IV complicava ulteriormente la situazione; però il successore, Clemente IV, eletto subito nel 1265, seguiva la crisi dell’Ordine Cistercense con altrettanta preoccupazione. Egli nominava una nuova commissione per l’insolubile questione, che era costituita dal Vescovo di Puy, dall’abate dell’abbazia benedettina della Chaise-Dieu e da Umberto di Romans, il maestro generale dei Domenicani che si era appena dimesso dal proprio incarico. Il 9 giugno 1265 seguiva la pubblicazione della bolla Parvus Fons, nota nella storia cistercense come la bolla Clementina. Fra i molti e pesanti provvedimenti, la bolla intendeva regolare il problema dei Definitori stabilendo che prima della riunione annuale del Capitolo ognuno dei quattro proto-abati doveva presentare cinque nomi all’abate di Cîteaux, che ne avrebbe scelto quattro; il definitorio risultava essere formato da venticinque persone: i proto-abati, l’abate di Cîteaux, membri ex officio; e i quattro abati scelti, per ciascuna delle filiazioni, dal superiore di Cîteaux.

Non è ancora chiaro chi fosse l’autore del testo della bolla; comunque il comitato papale venne inviato all’abbazia di Cîteaux per spiegarne il contenuto durante il Capitolo generale del 1265; ciò forse sta a dimostrare che tale comitato, o almeno Umberto di Romans, così sperimentato, aveva avuto una certa influenza nella sua formulazione. Non appena il Capitolo si aprì, a metà settembre, la bolla e la sua interpretazione divennero oggetto di accese discussioni, perché i proto-abati facevano rilevare che anche la nuova formula dava all’abate di Cîteaux eccessivi poteri. Per fortuna, era presente al Capitolo l’abate precedente di Cîteaux, Guy, divenuto Cardinale di San Lorenzo in Lucina e legato papale; tutti i partecipanti al Capitolo sottoposero a lui il problema della scelta dei Definitori, perché fungesse da arbitro. Il cardinale Guy decise che ciascuno dei quattro proto-abati doveva nominare due abati, membri del Definitorio, che non avrebbero potuto essere rifiutati dall’abate di Cîteaux; gli atri due sarebbero stati eletti dall’abate di Cîteaux fra i tre nomi restanti. Questo compromesso venne alla fine accettato dal Capitolo e poi dal Papa.

Gli altri provvedimenti della bolla Parvus Fons miravano a restringere i poteri eccessivi degli abati-padri e dei visitatori regolari, e ad aumentare l’autorità del Capitolo generale. Così le abbazie con sede vacante, governate ad interim dai loro priori, sarebbero state libere di portare avanti la soluzione dei propri affari; l’elezione abbaziale sarebbe stata decisa soltanto in base ai voti delle comunità locali; il neo-eletto abate di Cîteaux avrebbe assunto il proprio ufficio senza aver bisogno di essere confermato dai proto-abati. Da ultimo, la visita regolare di Cîteaux da parte dei proto-abati doveva svolgersi ogni anno in occasione della festa di santa Maria Maddalena (22 luglio); ma i visitatori, a Cîteaux come altrove, non avevano il potere di deporre l’abate senza un regolare processo e senza l’autorizzazione del Capitolo generale. Deposizioni istantanee degli abati furono limitate ai casi di delitti pubblici commessi in modo flagrante oppure abbandono dei propri doveri. Un funzionamento più razionale del Capitolo generale venne facilitato garantendo uno statuto legale al Definitorio, che fino allora era stato abbastanza informale: si trattava di un consiglio esecutivo interno, incaricato di preparare l’ordine del giorno e di redigere la stesura degli statuti. Tuttavia, l’emergere di questa istituzione, dotata di molti poteri, comportò la riduzione della partecipazione attiva degli altri membri al Capitolo e scoraggiò la presenza degli abati che non avevano nessuna probabilità di diventare definitori. Ma, ben di più, la scelta dei definitori, preludio delle sessioni formali del Capitolo, si rivelò occasione per una intensa politicizzazione dello stesso, cosa che non favorì quella concordia così necessaria fra i proto-abati.

La successiva pietra miliare nella storia giuridica dell’Ordine è costituita dalla bolla Fulgens sicut stella, una costituzione apostolica promulgata da Papa Benedetto XII, un papa cistercense, nel 1335, ricordata popolarmente come Benedettina. Si trattava di un documento di circa 8.000 parole; e l’ultima terza parte formava il primo codice cistercense sulla formazione, di cui si parlerà più avanti. La maggior parte della costituzione corrispondeva allo schema generale di legislazione religiosa promosso dal Papa. Nello spazio di quattro anni il Papa pubblicò delle costituzioni parallele per i Monaci Bianchi, gli Ordini Mendicanti e i Canonici Agostiniani; tutto era concepito in uno spirito di centralizzazione burocratica molto avanzato, il cui modello era costituito dalla corte papale di Avignone. Questi documenti costituivano il fondamento della legislazione successiva degli Ordini Religiosi.

La bolla Clementina aveva introdotto una riforma costituzionale; la bolla Benedettina costituiva fondamentalmente una riforma di amministrazione finanziaria. Erano ben lontani gli anni in cui, seguendo le prescrizioni della Regola, un solo cellerario era in grado di provvedere ai bisogni materiali del monastero. Le fattorie dei Cistercensi, un tempo così modeste, erano diventate degli enormi stati feudali; e, contemporaneamente, l’evoluzione dell’economia europea rendeva la loro amministrazione sempre più complicata. L’accumulazione di beni materiali ingigantiva di pari passo con il pericolo di incorrere prima o poi in ingenti perdite per le calamità naturali, senza dir nulla poi dei problemi relativi alla continua messa a punto con un sistema economico che si stava evolvendo radicalmente. Nonostante l’estensione e l’ampiezza delle loro terre, un gran numero di monasteri era caduto vittima di circostanze sfavorevoli ed era profondamente immerso nei debiti. Per porre rimedio a tali crolli finanziari la bolla Benedettina poneva delle limitazioni al potere assoluto degli abati sui beni del monastero, stabilendo un sistema di controllo. Dei diritti di supervisione vennero assicurati alle comunità o al Capitolo generale e, nei casi più importanti, la decisione era riservata alla Santa Sede. I documenti delle transazioni legali, nel caso in cui era previsto il consenso della comunità, dovevano essere contrassegnati con il sigillo ufficiale del monastero. La costituzione creava l’incarico di “tesoriere”, il cui compito era dì registrare le entrate e le uscite della comunità; e richiedeva la stesura di un bilancio annuale di tutto ciò che era sottoposto all’amministrazione fiscale.

Altri paragrafi sottolineavano l’importanza del Capitolo generale e ne richiedevano con enfasi la partecipazione regolare. Si ricordava agli abati che nessun novizio avrebbe dovuto essere ammesso senza avere i requisiti specifici per la vita religiosa, anche in quel tempo di diminuzioni di vocazioni. Il Papa sottolineava anche la necessità della semplicità degli abiti e del cibo, sebbene in qualche caso una dispensa generale dall’astinenza fosse stata concessa agli abati e ai loro seguiti. Una nuova sistemazione che prevedeva l’installazione di celle private invece del dormitorio comune, venne condannata e rigorosamente proibita.

Nel primo abbozzo di questo documento era stata introdotta una innovazione rivoluzionaria: il Papa proponeva che, oltre agli abati, ogni comunità avrebbe dovuto essere rappresentata al Capitolo annuale da un delegato, eletto con la maggioranza dei suffragi. Questo movimento era, molto probabilmente, ispirato alla costituzione dei Domenicani; però fra gli abati dell’Ordine sollevò un universale stato d’allarme. In un memorandum molto prolisso essi protestarono contro questa ed altre forme di limitazione del potere abbaziale e ne risultò che la proposta di un delegato conventuale venne eliminata dal testo finale. L’ufficio di “tesoriere” fu un altro punto della riforma amministrativa che non incontrò molto favore e dietro richiesta degli abati, questa prescrizione venne presto modificata da Clemente VI, l’immediato successore di Benedetto XII.

La lettura della Benedettina evidenzia l’infiltrazione di abusi nell’Ordine e segnala la diffusione di una cattiva amministrazione; tuttavia bisogna dire che l’Ordine, nel suo insieme, osservava ancora gli alti ideali dei suoi fondatori, godendo ancora e, a buon diritto, di una vasta reputazione e meritando l’eloquente elogio che il Pontefice stendeva nel paragrafo di introduzione della Costituzione. Queste parole preziose e nobili riconoscevano solennemente il carattere attivo dell’Ordine attribuendogli insieme il ruolo di Marta e di Maria: “Risplendendo come una stella nel mezzo di un cielo pieno di nubi, il Sacro Ordine Cistercense con i suoi buoni servigi e i suoi esempi edificanti si distingue nelle lotte della Chiesa militante. Con la dolcezza della santa contemplazione e i meriti di una vita immacolata, si sforza con Maria di salire la Montagna di Dio, mentre con le lodevoli attività e i pii servigi cerca di imitare l’attiva sollecitudine di Marta. Pieno di zelo per la lode divina e insieme per assicurare la salvezza sia dei membri dell’Ordine che di quanti vi appartengono, consacrato allo studio della Sacra Scrittura come ad apprendere dal testo rivelato la scienza della perfezione, potente e generoso nella fatica della carità come nel compimento della legge di Cristo, quest’Ordine ha meritato di estendersi dall’uno all’altro estremo dell’Europa. È salito gradualmente fino al punto più elevato della virtù ed abbonda delle grazie dello Spirito Santo, che si compiace di infiammare i cuori degli umili”.

Fra le importanti innovazioni amministrative che erano conseguenza più delle necessità pratiche che della procedura legislativa, la più significativa fu la creazione di un procuratore generale dell’Ordine, che doveva seguire la sempre crescente quantità di affari legali a Roma o, per la maggior parte del quattordicesimo secolo, ad Avignone. Fino al 1220, due sacerdoti del clero secolare si interessavano di questi problemi a Roma. Per tutto il resto del secolo dei canonisti continuarono ad assicurare tali funzioni sotto la direzione di qualche abate cistercense, di Roma o di Casamari; il loro stipendio era di dodici marchi all’anno ed era pagato dai fondi messi a disposizione dal Capitolo generale. Per un certo periodo, lungo il XIV secolo, degli illustri membri dell’Ordine svolsero la stessa funzione ma, invece di due, nel documento pontificio appare solo un procuratore generale: questi, con tutta probabilità, era responsabile di un piccolo ufficio con alcuni segretari ai suoi ordini. Tutti gli abati dell’Ordine dovevano indirizzare alla Curia i loro problemi legali tramite il procuratore, che era, allo stesso tempo, un vigile difensore dei privilegi cistercensi. Il primo procuratore generale, di cui si menziona il nome nel 1390, fu Pietro Mir, un monaco francese, nato a Parigi e dottore in teologia, che più tardi divenne abate di Grandselve. Il ruolo del procuratore nei secoli successivi divenne ancora più grande. soprattutto durante quella famosa guerra delle osservanze del secolo XVII.

Fu probabilmente sotto l’influenza dei Francescani se anche i Cistercensi ad un certo momento cercarono un cardinale protettore nella Curia. Non c’è dubbio che una lunga successione di cardinali cistercensi avevano “di fatto protetto l’Ordine” per un certo periodo, ma solo verso il 1260 venne alla luce il titolo di protettore dell’ordine, accanto al nome del cardinale cistercense John di Toledo, inglese di nascita. Non si specificò mai in che cosa consistesse il ruolo di protettore; probabilmente si trattava più di un titolo onorifico che di un compito vero e proprio, a meno che il cardinale non fosse nominato per un servizio speciale da parte del Capitolo generale o dalla Curia.

Un problema spinoso, interamente sfuggito e non previsto dagli autori della Carta di Carità, derivava dalle ingenti spese che Cîteaux doveva sostenere durante le sessioni del Capitolo generale. Per ridurre le necessità di cibo e di alloggio, il personale di Cîteaux (che non era necessario per lo svolgimento del Capitolo) veniva trasferito temporaneamente alle grange ed ad altre case vicine; d’altro lato, si richiedeva agli abati che partecipavano al Capitolo di venire a Cîteaux da soli, lasciando in qualche abbazia vicina i loro compagni di viaggio e i loro cavalli. Per l’occasione si acquistava gradualmente il cibo, in parte era certamente donato, prima dell’inizio delle sessioni. Secondo quanto è registrato nel Capitolo generale del 1199, il pesce veniva t.phportato a Cîteaux direttamente da Losanna. Nel 1204, Guiard, Signore di Reynel, concedeva a Clairvaux i diritti di pesca nella sua proprietà a partire da otto giorni prima fino a otto giorni dopo il Capitolo generale. Naturalmente, una parte della pesca era destinata a Cîteaux come contributo di Clairvaux per l’alimentazione della assemblea. È chiaro, da quanto è stato registrato sui documenti del dodicesimo secolo, che si facevano delle collette tra gli abati partecipanti, ma sembra che non fosse fissata una quota precisa e che neppure il contributo fosse considerato obbligatorio. Il Capitolo generale del 1212 insisteva soltanto sul fatto che le donazioni raccolte dovevano essere utilizzate in modo tale che tornassero a beneficio di tutti i partecipanti e in misura uguale. La bolla Parvus Fons del 1265 incaricava due abati di occuparsi dell’intera operazione economica.

Contemporaneamente, l’Ordine sollecitava attivamente dei doni o delle fonti permanenti di entrate per lo stesso scopo, presso amici e benefattori. Secondo i resoconti del Capitolo, re, principi e membri della gerarchia spesso contribuirono con somme rilevanti. Il Re Alessandro II di Scozia (1214-1249) offriva ogni anno venti lire sterline; Bela IV di Ungheria (1235-1270) donava le entrate di molte chiese della Transylvania. San Luigi IX, Re di Francia (1226-1270) e Bianca di Castiglia, sua madre, garantirono a Cîteaux delle rendite perenni, e il loro esempio fu seguito da altri membri della famiglia reale. La più celebre di tutte queste donazioni venne concessa nel 1189 dal Re Riccardo I di Inghilterra, prima che egli partisse per la sua famosa crociata. Le rendite abbondanti della Chiesa di Scarborough, vicino a York, vennero donate come contributo alle spese del Capitolo generale, dietro condizione che l’Ordine, sotto il controllo dell’abate di Rievaulx, mantenesse un vicario, incaricato del servizio pastorale. Le entrate erano considerevoli, e per la stessa ragione il clero di York non era per niente d’accordo che somme così ingenti di danaro fossero assorbite da una lontana abbazia francese. Coloro che andavano alla ricerca di benefici – appartenenti sia alla società laica sia al clero diocesano o regolare – si servirono di pretesti di ogni genere e di tutte le occasioni possibili per ostacolare l’amministrazione dei Cistercensi su quella Chiesa; altre ragioni, d’altronde, la rendevano precaria, per esempio la Guerra dei Cento Anni, scoppiata fra la Francia e l’Inghilterra (1337-1453). Le contese a proposito di Scarborough, che si protrassero dalla fine del dodicesimo secolo fino alla vigilia della soppressione, costituiscono la documentazione d’archivio più estesa sulle cause legali della storia cistercense.

Da un punto di vista giuridico, il successo più durevole del Capitolo generale fu la raccolta sistematica e la pubblicazione periodica degli statuti, che risolveva, almeno in parte, i problemi di ogni abbazia nell’affrontare il tentativo di porre in pratica la quantità enorme e spesso incongruente delle decisioni annuali. La prima di queste collezioni, intitolata Libro delle Definizioni (Libellus definitionum) venne portata a termine nel 1202 sotto gli auspici di Arnold Amaury, abate di Cîteaux. Il Capitolo del 1204 richiese che «il libro deve essere pronto il più presto possibile, così che nessun abate potrà giustificarsi in futuro col pretesto dell’ignoranza». Il nuovo codice presentava quindici capitoli, in quest’ordine:

  1. l. la fondazione delle abbazie;
  2. 2. l’ammissione dei novizi, professione e benedizione degli abati;
  3. 3. l’ufficio divino;
  4. 4. privilegi e immunità;
  5. 5. il Capitolo generale;
  6. 6. il capitolo quotidiano delle colpe;
  7. 7. visite regolari e poteri dei padri immediati;
  8. ufficiali del monastero e operai;
  9. i monaci in viaggio;
  10. accoglienza degli ospiti ed esequie nelle abbazie;
  11. la pratica della povertà;
  12. regolazione delle compra-vendite;
  13. regime alimentare – abbigliamento;
  14. i fratelli conversi;
  15. 15. regolamenti vari.

A partire dalla stessa struttura fondamentale, il codice venne riadattato nel 1220, 1240 e 1257. La pubblicazione della bolla Parvus fons richiese una rielaborazione più radicale, che venne portata a termine nel 1289. Né il titolo né la struttura della collezione originale furono cambiati, ma il primo capitolo comprendeva i testi sia della Carta di Carità nella versione definitiva che della bolla Parvus fons. Un’altra innovazione consisteva nella redazione del capitolo 14, che era seguito da regole e norme sulle monache cistercensi.

Nel 1316 il Capitolo generale richiese una nuova compilazione delle costituzioni giuridiche dell’Ordine Cistercense e quando venne presentata al Capitolo l’anno successivo, l’assemblea non solo l’accettò ma decretò inoltre che tutte le collezioni precedenti si dovevano considerare superate e quindi soppresse. Il titolo del nuovo codice fu Libro delle antiche definizioni (Libellus antiquarum definitionum). Molti.phpetti e molte presentazioni erano nuove, ma quest’opera conservava i quindici capitoli tradizionali. Dopo la pubblicazione della Fulgens sicut stella nel 1335, divenne evidente che era imminente un’altra revisione sostanziale. Come per la redazione delle compilazioni precedenti, si creò una commissione di abati per stendere l’arduo progetto, che venne completato quattro anni dopo.

L’autore della Fulgens sicut stella, Benedetto XII, era un eminente canonista e non rimase soddisfatto dei risultati. Dopo aver ascoltato le sue obiezioni, presentate al Capitolo nel 1339 dal suo nipote cistercense, il Cardinale Guglielmo Curti, protettore dell’Ordine, l’assemblea convenne che era necessario promuovere degli studi ulteriori. Il nuovo testo venne approvato e pubblicato nel 1350 con il titolo Nuove definizioni (Novellae Definitiones), ma comprendeva solo il nuovo materiale giuridico, accumulato dopo il 1316. In molti casi la nuova legislazione modificava il Libro delle antiche definizioni, ma non si definì che la nuova collezione doveva sostituire la precedente; in pratica e in concreto, rimaneva necessario riferirsi ad entrambe le collezioni.

Più volte si propose di fondere in uno solo i due codici, soprattutto nel 1487, ma il piano non venne mai portato a termine. Così le Antiche e le Nuove definizioni continuarono ad essere usate come manuali giuridici dell’Ordine Cistercense fino alla vigilia della Rivoluzione Francese, sebbene molti provvedimenti venissero man mano profondamente rimaneggiati dalla legislazione successiva.

Bibliografia

(...)

L.J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, VI, Certosa di Pavia, 1989.

© Certosa di Firenze